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Festival dei Popoli: anteprima italiana di The Cave, il documentario del regista siriano Feras Fayyad

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Dopo il successo internazionale di Last men in Aleppo, vincitore del World Documentary Grand Jury Prize al Sundance Film Festival nel 2017 e candidato agli Academy Awards come miglior documentario, il regista, sceneggiatore e produttore siriano Feras Fayyad torna dietro la macchina da presa, tra le macerie del suo paese straziato dalla guerra, per raccontarcene un altro drammatico aspetto.

Concepito prima della realizzazione di Last men in Aleppo,  in The Cave, in anteprima italiana al Festival dei Popoli in corso a Firenze in questi giorni, si rintraccia nuovamente il tema centrale di Feras Fayyad, il conflitto interiore di chi, nonostante continui a rischiare la vita, sente di non aver fatto abbastanza per la propria gente.

Last men in Aleppo raccontava le azioni dei White Helmets, organizzazione di civili volontari, appoggiati dalle forze in opposizione al governo di Bashar Al Assad e spesso oggetto di campagne di disinformazione da parte dello stesso Assad, di agenzie di stampa iraniane e cinesi; uomini, siriani, volontari, che quotidianamente mettono in salvo vite umane tra le macerie dei ripetuti bombardamenti e che ad un certo punto sono costretti a lasciare la città per non rischiare ulteriormente la loro pelle.

In The Cave troviamo un gruppo di giovani medici, uomini e donne, volontari, che nell’ospedale sotterraneo di Eastern Ghouta, nei dintorni di Damasco, cercano di curare i bambini e gli adulti colpiti dai bombardamenti e dalle armi chimiche. Il gruppo di lavoro è diretto dalla giovane e scrupolosa pediatra Dr. Amani Ballour, che spende i suoi trent’anni a cercare di salvare il suo paese, dopo aver perso i fratelli in guerra. Amani e le sue colleghe, tra cui la Dr. Alaa,  nonostante tutto, restano umane, nella tragedia quotidiana dei corpi lacerati e intossicati, ci sono rari e preziosi momenti di vita normale, una sorpresa di compleanno, il trucco per il viso, una cena tra colleghi con i pochi ingredienti a disposizione.

“Non so cosa spinga le persone a fare figli in queste circostanze.”

Nato e cresciuto in una famiglia di donne, per Feras Fayyad, The Cave è anche l’opportunità di parlare del ruolo della donna in una società patriarcale: più volte i feriti che vengono portati nell’ospedale sottoterra di Amani, si rivolgono a lei in modo brusco, ricordandole che una donna deve stare a casa a badare ai figli, e non dovrebbe lavorare. Qualche scena dopo, la giovane, in un impeto rabbioso e di odio verso la guerra, alle prese con dei neonati intossicati dalla armi chimiche, si chiede come faccia la gente a fare figli in una situazione come quella che stanno vivendo da più di otto anni. E’ una questione importante quella che il regista racconta, che sua madre e sua sorella, due insegnanti, anni prima avevano già sperimentato sulla loro pelle.

“Quello che ho visto, si impossesserà di me per il resto della mia vita.”

The Cave irrompe nel nostro quotidiano tranquillo e soprattutto pacifico e democratico, e ci mette davanti agli occhi la nuda e cruda realtà della guerra: grazie a una fotografia nitida, una regia fissa sui bombardamenti, che poi percorre le macerie fino a farci entrare nel tunnel buio che porta all’ospedale sottoterra, The Cave è un documentario potente e reale, che resta dentro non soltanto durante l’ora e mezza di proiezione ma continua a dare allo spettatore quella terribile sensazione che non ci sia una via di scampo. Ovunque vada la telecamera è solo guerra e distruzione.

“Dio sta vedendo quello che accade?”

E se il gruppo di lavoro della Dr. Amani dispone di poco cibo e poche medicine, e cerca di fare il possibile e soprattutto l’impossibile per curare al meglio i feriti,  togliendosi quasi il cibo dalla bocca per sfamare i bambini indeboliti dal periodo prolungato di malnutrizione, Fayyad prende esempio dai dottori dell’ospedale e con pochi mezzi, poca connessione wifi, una sola macchina da presa, a spalla, poca luce, poca elettricità, cerca di riprendere il più possibile, ben consapevole di rischiare la vita per testimoniare al mondo quello che sta succedendo; e infatti le uniche immagini disponibili al mondo, delle conseguenze degli attacchi chimici in Siria sono proprio quelle di The Cave.

“Quando il regime scomparirà, io tornerò.”

La Siria è un paese dove chi vuole fare l’artista deve poi mettersi al servizio del regime facendo propaganda, come accadeva nell’ex Unione Sovietica. Non c’erano scuole per aspiranti cineasti, quindi Fayyad ha studiato regia in Libano, dove però ha dovuto fare i conti con le ostilità verso i siriani; per questo ha proseguito i suoi studi in Francia per poi tornare in Siria, all’inizio della rivoluzione, nel 2011. Le torture subite dal regime di Assad, a 27 anni, per aver filmato il conflitto in corso, non gli hanno impedito di continuare a mettere a repentaglio la sua vita per raccontare quello che probabilmente senza la sua testimonianza non avremmo mai visto.

E nemmeno l’ordine restrittivo che ha impedito che gli fosse concesso il visto d’ingresso negli Stati Uniti, per presiedere alla cerimonia degli Academy Awards, primo siriano ad ottenere una nomination agli Oscar, ha potuto ostacolare la sua voglia di raccontare, di fare luce, dai sotterranei di un buio rifugio, su quanto sta succedendo.

Fayyad oggi vive in Danimarca ma resta in costante contatto con il suo paese. Pare sia un film ancora al femminile, e in Siria, il suo prossimo progetto, la storia di un gruppo di donne avvocato che cercano di costruire un nuovo sistema giudiziario.

Dopo l’anteprima italiana di The Cave al Festival dei Popoli, ci auguriamo di cuore che il film veda la sala cinematografica e sia trasmesso dai maggiori canali streaming di tutto il mondo.

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