Ponendosi a metà strada tra il cult Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg e una puntata della prima stagione di Ai confini della realtà (The Twilight Zone) degli anni ’50, The Vast of Night di Andrew Patterson, presentato in concorso alla 14a Festa del Cinema di Roma, è un chiaro omaggio a quel thriller fantascientifico cui fa riferimento, di cui però non ha tutto lo smalto.
Il film è confezionato proprio come una puntata di The Twilight Zone: una musichetta invitante apre la scena su una tv in bianco e nero dove sta per iniziare un nuovo episodio di The Paradox theatre, e alla stessa tv le inquadrature ritornano incessantemente, quasi a confondere realtà e fantasia. La storia narrata è ambientata in una piccola città del New Mexico, Cayuga, negli anni ’50, dove, in contemporanea con un’importante partita di basket della scuola locale, si verificano strani avvenimenti che attraggono l’attenzione della giovane centralinista Fay (Sierra McCormick) e dello speaker radiofonico Everett (Jake Horowitz). Quando tutta la popolazione è concentrata sul campo, Fay è al lavoro al centralino; ma numerose interferenze di dubbia origine la spingono a contattare Everett alla stazione radiofonica. Lanciato un appello radio, al telefono si palesa un fantomatico Billy, che racconta la sua storia; parte da qui l’investigazione di Fay ed Everett, che appare come un episodio di X-files, con i due ragazzi nei panni di due vintage Mulder e Scully. L’indagine infatti li porterà sino a casa di una strana anziana signora, per la quale la causa di tutto sono alieni che ogni tanto vengono sulla Terra a rapire persone; a suffragio della sua certezza, racconta di un vecchio episodio di un treno vittima di un ‘assalto Apache’, ma dove in realtà i passeggeri non sono stati attaccati ed uccisi dagli indiani ma sono svaniti nel nulla. Il seguito è fantascienza pura, comprese le classiche, annunciate, astronavi a tutto schermo. Un plot non originalissimo che colpisce però per la raffinatezza della fotografia, la cura dell’ambientazione e soprattutto per il gioco di atmosfere che comprende immagini e suoni in un tutt’uno imprescindibile: dai piani sequenza alle importanti inquadrature, fino alla scelta estrema di oscurare lo schermo per lasciare spazio solo a parole musica e rumori, il regista trova e riesce a mantenere un perfetto equilibrio tra potenza visiva e sonora; il tutto incastonato in una cornice vintage che incanta e supplisce al ritmo rallentato e alle mancanze della sceneggiatura.