La tua vicinanza con il protagonista del film la si capisce dalle parole che Douglas Kirkland ti dedica alla fine di That Click. Vorrei partire dall’eccezionalità di questa relazione per chiederti come sei riuscito a mettere dietro la macchina da presa un mito come Kirkland, abituato a essere lui a posare il suo sguardo sugli altri e non viceversa?
Il motivo è stato del tutto casuale. In realtà, non sono un esperto di fotografia, però ho una casa di produzione in cui uno dei miei collaboratori è stato per un periodo assistente di Douglas. La persona di cui sto parlando è Gianfilippo De Rossi, che altri non è che il direttore della fotografia di questo documentario. Una volta lui mi ha invitato a casa di Douglas per farmelo conoscere e mi sono trovato circondato da queste fotografie pazzesche, prendendo coscienza immediata di quanto e come il suo lavoro avesse segnato un’epoca. E parlo sia di coloro che le hanno viste ma anche di quelli che non hanno avuto questa opportunità, nel senso che esse raccontano un immaginario collettivo, oggi più che mai presente nelle nostre vite e che per tale ragione doveva essere raccontato. Ovviamente, ho intuito che dietro ogni foto c’era un aneddoto. Spesso si trattava di episodi divertentissimi, legati anche alla vita personale di Douglas che si intreccia in maniera indissolubile a quella professionale. Quando ho proposto, prima al mio team di produzione e poi a Douglas, di realizzare un progetto di lungometraggio ancora mai realizzato la risposta è stata subito positiva da entrambe le parti.
Trattando un personaggio che ha segnato la storia dell’immaginario popolare, That Click tra le altre cose cerca di dare forma all’arte e alla personalità del suo protagonista. Lo si vede nella libertà del montaggio, la cui effervescenza sembra ricreare l’entusiasmo che caratterizza i set di Kirkland. Oltre a questo, il frequente utilizzo di immagini fotografiche fa del film una sorta di estensione della sua arte.
Ci provo ed è un’operazione che in realtà cerco di fare sempre nei miei film. È successo lo stesso con il documentario su Alberto Burri e Piero della Francesca (Alberto Burri e Piero della Francesca: le due rivoluzioni, ndr) e così è andata con Douglas attraverso il materiale d’archivio o quello girato da lui. Sono abbastanza convinto che certe narrazioni siano già lì e che cineasti, registi e operatori siano un po’ dei cacciatori di storie. Forse questo mi viene anche dal background documentaristico, sta di fatto che ho tentato di fare altrettanto in Calypso, che è il mio primo film narrativo, raccontando il personaggio così come mi si manifesta davanti. Douglas ha mille sfaccettature ma, detto questo, credo che la sua essenza sia nelle sue foto, quanto le sue foto sono parte del personaggio. Il tentativo è stato di interpretare entrambe le cose tirando fuori al massimo la loro natura che è assolutamente pop, nel senso più nobile del termine: perché lo siano le foto è evidente, mentre Douglas è il tipo di persona che alla premiere del film indossa la cravatta a fiori e sul set è capace di mettersi a saltare.
È fa saltare anche gli altri e mi riferisco allo scatto sul set di Pirati con Polanski ritratto mentre fa la stessa cosa.
Si, certo, mette la musica dance e si mette a ballare con la persona fotografata. Lui è pop tanto quanto le sue foto, quindi il documentario non poteva essere un progetto patinato e moderato, ma doveva anzi accentuare questa dimensione ludica.
Quanto per lui la fotografia sia un’autentica ossessione lo si vede in due passaggi emblematici: quello in cui alla richiesta di Irving Peen, che lo vuole ricompensare per il lavoro svolto, lui risponde chiedendogli di poterlo fotografare, cosa che alla fine accettò, e l’altro, relativo alla famosa sessione con Marilyn Monroe, portata a compimento anche a costo di rinunciare a una possibile liaison con la diva americana.
Si, ovviamente, lo è e credo che questo sia un piccolissimo elemento, non vorrei dire autobiografico, ma di riconoscibilità. Chi fa il nostro mestiere, cioè chi trasforma una passione così forte in un lavoro ha in qualche modo una certa ossessione. In questo caso la domanda da produttore o regista emergente è come è possibile sopravvivere ad essa dal punto di vista personale, professionale e della vita privata. Attraverso Douglas Kirkland ho tentato di analizzare come lui sia stato in grado di gestire questa moltitudine di aspetti. Una delle risposte è che ha avuto al suo fianco una donna fortissima e intelligentissima che, anziché limitare questa sua ossessione, l’ha assolutamente assecondata. Sono insieme da cinquantadue anni, quindi ha funzionato.
Esplicativa della loro unione è la sequenza in cui sono ripresi nell’Upper East Side, davanti a quella che era stata la loro prima casa. Lei risponde con un certo controllo e in una posa convenzionale, mentre lui si offre di tre quarti, continuando a muoversi all’interno dell’inquadratura. L’averla inserita ti permettere di cogliere l’essenza della loro unione, ma tu fai anche di più, riproducendo attraverso un momento privato della vita di Douglas quell’anarchia controllata che era la norma durante le sue sedute fotografiche.
Ti ringrazio (ride, ndr), mi stai facendo un bellissimo complimento, ma è esattamente così perché nelle storie che racconto voglio essere lo sguardo di una vicenda che esiste già. In questo caso, potremmo dire, di una moltitudine di esse, ognuna delle quali degne di essere raccontate. Quindi, in realtà, non ho dovuto fare altro che unire dei pezzi. Da ogni frammento di materiale uscivano aneddoti, emozioni e contesti della sua vita personale e professionale. Per quanto mi riguarda, ho voluto accentuare e assecondare quella che è la sua natura e le immagini che meglio di altre la ritraggono.
Un’altra cosa che apprezzato è il fatto che tu abbia inserito materiali d’archivio senza intervenire su quelli danneggiati dal tempo. Tu li lasci di proposito così, rimanendo in questo coerente al principio di spontaneità e di genuinità dei contenuti e, dunque, del personaggio.
Avremmo potuto ripulirli, ma sarebbero stati snaturati e poi un filmato di 16mm del ‘52 non può essere nitido come il digitale che usiamo oggi. Anzi a me interessava che rivelassero la loro naturale imperfezione. È stato così anche per i backstages degli anni Ottanta e per le riprese effettuate da noi, sette, otto, dieci anni fa, con macchina da presa diverse da quelle di oggi.