Vorrei iniziare parlando di una costante delle tue storie e quindi anche di Yuli – Danza e libertà. Mi riferisco al contrasto tra l’umanità del personaggio e la disumanità del sistema sociale.
Penso si tratti di una costante molto interessante perché anche se non se ne parla direttamente è quella che ogni volta si ripresenta nelle storie di cui mi occupo. Se per esempio il protagonista di My name is Joe, ambientato a Glasgow, fosse stato un uomo ricco e facoltoso sarebbe stata tutta un’altra storia. A fare diventare interessante il film è, invece, il fatto di interessarci alla vicenda di un ex alcolizzato che si ritrova ad essere un quarantenne alla ricerca di se stesso, con una scarsa educazione e un nuovo lavoro. Tutte le grandi storie raccontano le difficoltà della vita quotidiana, come può esserlo oggi la ricerca di un lavoro. Esse nascono con caratteristiche minimali, ma poi sono destinate a crescere per diventare grandi e universali. Al narratore spetta il compito di trovare la cornice capace di far vedere l’individuo con le sue contraddizioni e frustrazioni. La storia è essenzialmente un conflitto in cui l’uomo cerca di capire se stesso, forse la sua mente o forse l’ambiente che lo circonda.
In questo caso, secondo me, Yuli è un po’ diverso dai tuoi film precedenti. Quelli, infatti, si rifacevano a un punto di vista esterno che partiva dall’osservazione della realtà per arrivare al personaggio e alle sue reazioni rispetto a un determinato contesto sociale. In Yuli mi pare ci sia uno sguardo che procede in senso contrario, e quindi che siano i sentimenti e lo stato d’animo del protagonista a plasmare la rappresentazione del quotidiano.
Penso che non sia una cosa così meccanica, perché se fosse tale si tratterebbe di una sorta di film a tesi. My name is Joe, per esempio, inizia con l’alcolismo del protagonista e prosegue con la sua felicità nell’essere sobrio. Non ci può essere niente di più personale che osservare uno con una vita come la sua, condizionata dagli impegni con la squadra di calcio per cui lavora e scandita dalla paura verso il mondo. Lo stesso accade in Sweet Sixteen, in cui abbiamo un ragazzino con la mamma in prigione, afflitto da problemi di soldi e dalle angherie del patrigno. Questi sono tutti aspetti che riguardano l’interiorità dei personaggi e non dipendono da una qualcosa di prestabilito. Se così non fosse l’unico risultato sarebbe quello di distruggere la storia. Gli spettatori non amano le tesi e dunque penso ci si debba rifare sempre a qualcosa di organico e di interno. Con Yuli è stata una sfida diversa, perché lui era un bambino ingenuo e spensierato che però veniva da un background di povertà, in anni in cui il razzismo era presente anche a Cuba. A fare la differenza nella sua vita è stata la possibilità di ricevere un’educazione gratuita e di entrare in una scuola di ballo. Il padre era un assoluto bastardo, molto più brutale di quello che si vede nel film, e fu lui che a un certo punto lo prese per i capelli e lo costrinse ad entrare a scuola. Ed è qui che succede una contraddizione fantastica, quella in cui il bambino dallo spirito libero e ribelle decide all’improvviso di dedicare il resto della propria vita ad una disciplina quale il balletto, probabilmente la più severa e difficile di tutte le altre. E anche se per questo Carlos (Acosta, il grande ballerino cubano, protagonista del film, ndr) sente di aver perso gran parte della giovinezza ciò non gli impedisce di dedicare i successi raggiunti al proprio padre. Anche in questo caso si tratta di una questione molto personale. Quando l’ho chiesto a Carlos mi ha detto: “Guarda com’è la mia vita oggi“. Lui viaggia per il mondo danzando insieme a una bellissima compagnia di ballo invitata ad esibirsi in qualunque parte del pianeta e anche a Cuba. Suo padre era brutale, ma quello che si deve comprendere è il motivo per cui si comportava così. Lui vedeva com’era la vita in quel periodo, con il razzismo serpeggiante che lui stesso aveva sopportato. Essendo un uomo di colore si supponeva che non avrebbe mai apprezzato l’arte o la cultura, ma anche lui ovviamente aveva una sensibilità. Penso che Santiago (il padre di Carlos, ndr) abbia agito in maniera splendida perché quando lo senti parlare senti cosa ha sofferto. Egli ha conosciuto il razzismo, capiva la religione africana e conosceva la dignità e la forza interiore. Abbiamo cercato di catturare tutto questo nel film.
Delle peculiarità di Yuli – Danza e libertà abbiamo detto. Ciononostante, non mancano elementi di continuità con i personaggi dei film di Loach. Anche a Yuli la società toglie ogni speranza e come gli altri anche lui può contare solo su stesso, sulla creatività intesa come capacità del singolo di far fronte alle difficoltà della vita, sulle possibilità di potersi affidare alla forza e alla resistenza del propri mezzi fisici e su un overdose di sentimento e umanità. C’è questo collegamento oppure no?
Quando inizi a lavorare su un progetto non c’è questa consapevolezza perché si pensa solo a svilupparlo. Di sicuro, osiamo attirati verso un certo tipo di storie per sensibilità interiore e affinità elettive. Ho scelto di fare il film perché mi piaceva Carlos: lui ha origini umili, ma invece che ricercare solo la ricchezza si è dato premura di ritornare nella sua comunità per restituire qualcosa del suo successo. Conoscendolo ho scoperto una persona molto modesta e solidale. Ci tengo a dirlo, perché se non fosse stato una uomo con cui non mi piaceva identificarmi non avrei trascorso due anni della mia vita lavorando con lui. Quello che mi piaciuto di lui è il fatto di voler ritornare a Cuba all’insegna del motto: “Tu mi hai aiutato a crescere e ora sono io ad aiutarti”. Non ha mai criticato Cuba e le è sempre rimasto fedele. Questo non significa indossare la bandiera della rivoluzione ma, piuttosto, fornire la testimonianza di non avere dimenticato le proprie radici. Di suo padre dice “Non mi sono mai scordato chi sono. Sono il figlio di Pedro Acosta, il camionista”. Ha fatto cose magnifiche ma ha origini umili. Per me l’ultima scena di danza che vediamo nel film è il ringraziamento nei confronti di suo padre, verso la scuola di ballo e, in un certo senso, verso Cuba.
Yuli è un biopic anomalo, a cominciare dal fatto che è davvero raro che lo sceneggiatore debba scrivere di un personaggio reale che interpreta se stesso all’interno del film.
Si, si, non l’ho mai visto prima.
Ma non solo. La struttura del film è tale che la biografia del personaggio è raccontata tre volte: dalla sceneggiatura, da Carlo stesso e, infine, attraverso le scene di ballo.
Volevamo fare qualcosa di originale, che riuscisse a catturare l’essenza del personaggio e della sua storia. Era molto pericoloso perché sulla carta e davanti alla macchina da presa avevamo allo stesso tempo Carlos bambino, Carlos ragazzino e il Carlos in carne e ossa. E, ancora, il Carlos mentre balla e quando interpretava il suo stesso padre. Tutto ciò poteva creare molta confusione e confondere le persone. Ne ho parlato con Iciar (Bollaín, regista e compagna di Laverty) e lei è stata come sempre molto chiara e schietta, gestendo la questione senza perdere alcunché in termini di intensità e coinvolgimento. È come quando scommetti e devi buttarti ma non sai se funzionerà o no. Con lei abbiamo fatto qualcosa di simile in También la lluvia. È un film che racconta la storia di centinaia di anni fa ma c’è anche la guerra dell’acqua. Anche li come in Yuli la ricchezza dei parallelismi non ha impedito di lasciare spazio ai personaggi. Si è trattato di un lavoro molto impegnativo ed è stata una scommessa molto eccitante, senza contare che per me la danza è trascendentale e suggestiva. Avremmo potuto concentrarci sulla notorietà di Carlos, sulle sue possibilità economiche, sul fascino riscosso presso il pubblico femminile, così come sui successi raccolti sui palchi più prestigiosi, però penso che non ce ne sia stato bisogno perché tutto questo si percepisce nell’emozione della danza. Questa è stata la vera sfida e cioè non raccontare il tutto con una narrazione di tipo tradizionale ma di mescolare la danza con la narrativa.
A proposito di quest’ultima affermazione: all’inizio a lui non piace danzare e le immagini sanciscono questa disaffezione mostrando solo in rari casi di scene di ballo. Al contrario, quando la danza entra a far parte della sua vita in maniera viscerale l’accostamento tra narrazione e ballo diventa sistematico e imprescindibile.
È un osservazione molto acuta perché è proprio quello che abbiamo cercato di fare. Da bambino Carlos pensava che i ballerini fossero omosessuali e per questo non voleva diventarlo. Sì è trattato perciò di un innamoramento graduale, in cui a un certo punto Yuli è stato sedotto dalla danza al punto che osservava i ballerini e cercava di imitarli. Quando entra in campo il “secondo Carlos”, (l’attore Keyvin, ndr) c’è una scena di danza bellissima e molto lunga. In quel caso il nostro intento era di mostrare un ballerino in una sessione di danza e non di fare come succede nei prodotti americani che ricostruiscono i balli attraverso accorgimenti di montaggio che tagliano e ricompongono le varie performance. In molti volevano che lo facessimo anche noi, ma abbiamo detto di no perché non volevamo fare un videoclip ma far vedere la danza per quello che è, con il sudore, i muscoli, gli esercizi; far vedere la bellezza di tutto questo fino alla canzone finale, ancora una volta accompagnata da una danza molto semplice ma efficace nel trasmettere il ringraziamento di Carlos per quello che ha avuto.
Raccontando la storia di Carlos attraverso diversi tipi di rappresentazione finisci per riflettere anche sul cinema e, in particolare, sui modi che esistono per raccontare la medesima storia. Anche questo concorre a fare di Yuli un progetto rischioso come tu stesso hai ammesso. D’altra parte all’insegnante di danza di Carlos a un certo punto fai dire che l’artista è tale perché nel suo mestiere si prende sempre dei rischi. Tu che rischi ti sei preso come sceneggiatore?
Credo che si debba prendere sempre qualche rischio, altrimenti ripeti continuamente la stessa storia. Allo stesso tempo, penso che ogni storia sia differente da un’altra. La loro essenza la trovi solo scavando sotto la superficie, ma questo non ti dice in anticipo se ciò che trovi funzionerà. Tutto quello che devi fare è spendere del tempo cercando di capire cosa sta accadendo nelle zone più profonde. È sempre una sfida ma è sempre molto eccitante cercare di capire come fare. Invecchiando capisci che hai poco tempo e non vuoi ripeterti: non sai quanti film potrai ancora fare o se troverai ancora finanziatori e quindi cerchi di dedicarti a qualcosa di differente.
Vorrei chiederti qualcosa sul tuo lavoro con Ken Loach e in particolare qual è nei vostri film il rapporto tra testo e immagini. Te lo domando perché di fronte alla naturalezza con cui gli attori interpretano i rispettivi ruoli mi sono chiesto fino a che punto venisse seguita la sceneggiatura.
È una buona domanda. Penso che sia il bello della collaborazione, il bello di lavorare con qualcuno come Ken. Oltre al rispetto reciproco verso il nostro lavoro, siamo davvero buoni amici e, come detto altre volte, ci troviamo d’accordo sui copioni. Certo è che la storia deve funzionare non solo sulla pagina scritta. Ken è l’uomo che rispetta più di tutti il copione. Da sempre afferma che il testo scritto è la cosa più importante. Non è l’unica, ma lui lo dice sempre. Tra di noi il confronto è aperto e sincero e una volta finita la sceneggiatura facciamo insieme il casting. Molto spesso cerco di trovare qualche persona che possa funzionare all’interno del film. Ken vede centinaia di individui e fa la prima selezione, mentre io arrivo al termine di questa prima fase. Ci confrontiamo per vedere se un determinata persona è intelligente, divertente e dotato della capacità di suscitare emozione. Di solito si segue il copione al 90%, con Loach che ogni tanto lo cambia qua e là. Lui gira per sequenze separate, in modo tale che gli attori non possano vedere il copione nel suo insieme ma solo per sessioni. In questo modo gli attori vivono la storia non sapendo come prosegue. Il risultato di questo processo è veritiero e molto di questo dipende dalla bravura che Ken ha con gli attori. Penso che Iciar abbia lo stesso talento e abbia fatto la stessa cosa. Ho fatto altri film con lei come El Olivo. Santiago Alfonso (l’attore che interpreta il padre di Carlos, ndr), per esempio, non aveva mai recitato ed è straordinario e questo è in parte dovuto alla bravura della regista.
Carlos è un artista che mette il proprio talento a disposizione dei più deboli. In qualche modo tu hai fatto lo stesso con le tue sceneggiature. È stato forse questo a spingerti a scegliere questa storia e il suo personaggio?
È molto difficile per me essere obiettivo. Credo che la persona che tu sei ti spinga a dire sì o no a un progetto e anche con chi lavori. Sono molto felice di aver lavorato con Ken e con altri registi dotati della stessa sensibilità per l’umano. Credo che come ogni essere umano anche io mi rivelo attraverso ciò che faccio. Tu fai interviste e con questo riveli un po’ le tue scelte. Ogni essere umano si rivela tramite le proprie azioni.
Ma in questo caso, dal mio punto di vista tu corrispondi completamente a quello che scrivi.
Penso che tu abbia ragione, il protagonista non sono io, ma consciamente o inconsciamente ci deve essere qualcosa di me nelle storie che scrivo. Per esempio, nel film It’s a Free World l’attrice protagonista vinse un premio a Venezia. Di fatto è un personaggio negativo, ma credo che Ken abbia capito perché si comporta in quel modo. Lei è così dura perché è stata umiliata, è una mamma single povera che sfrutta le altre persone. Penso sia interessante quando il dramma esamina come si possa diventare in quel modo. Cosa l’ha fatta essere così dura e violenta? Sono tutte domande interessanti e complicate, ma l’umanità si trova facendo domande difficili.
Nei tuoi lavori ti sei trovato ad affrontare le conseguenze del modello di sviluppo americano, analizzandolo in Bread and Roses dal punto di vista interno a quel paese, sia ne La canzone di Carla come ingerenza nella politica di altre nazioni. Oggi a che punto siamo secondo te?
La tua è una domanda importante, ma al tempo stesso complessa, perché effettivamente vedo in questa politica degli Stati Uniti la metafora in cui esiste un modello di sviluppo economico che ha passato diverse fasi. Mai come in questa epoca la ricchezza è concentrata in un numero cosi ridotto di persone, e questo non lo dico solo io ma le ricerche di insigni storici ed economisti. Se osservi come tutto questo funziona ti accorgerai che non è solo un problema degli Stati Uniti ma di tutto il mondo, perché questo modello si riproduce anche negli altri paesi. Guarda ad esempio Amazon in cui la persona che gestisce quella società è la persona più ricca della terra; ebbene, basterà percorrere l’intera catena che dal vertice arriva all’uomo che consegna i pacchi in bicicletta per capire in che modo tutto questo influenzi la vita del singolo. In questo film come negli altri il mio approccio è stato sempre quello di andare a trovare le piccole storie degli esseri umani che subiscono le conseguenze del sistema. In particolare, sono d’accordo con te nel citare a tal proposito La canzone di Carla e Bread and Roses. Nel campo della letteratura questo modo di procedere è presente, per esempio, in Furore di John Steinbeck.
L’ultima domanda è fatta per i nostri lettori ed è per questo che ti chiedo di essere tu a presentare il tuo nuovo film con Ken Loach, Sorry we missed you.
Innanzitutto, vorrei ringraziare i vostri lettori per la curiosità nei confronti di Yuli – Danza e libertà, grazie di aver dimostrato interesse per un film con un budget così ridotto e privo di grossi supporti. Per quanto riguarda Sorry we Missed you dico che se avete qualcuno di cui vi occupate o qualcuno dei vostri famigliari a cui siete particolarmente legato datevi la chance di vedere questo film e chiedetevi se quello che succede possa essere la soluzione alle questioni poste dal film.