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Film Festival dei Diritti Umani: intervista a Lech Kowalski

Lech Kowalski è il cattivo maestro del cinema contemporaneo, l’esplosivo regista che ha saputo catturare l’essenza del punk per poi proiettarla sul grande schermo. Lo abbiamo incontrato a Lugano durante la VIa edizione del Film Festival dei Diritti Umani

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Incontriamo il Maestro Lech Kowalski a Lugano durante la VIa edizione del Film Festival dei Diritti Umani, un fiore all’occhiello del Canton Ticino. Il cineasta polacco trasferitosi prima a Londra e poi a New York, considerato il cattivo maestro del cinema contemporaneo, l’esplosivo regista che ha saputo catturare l’essenza del punk per poi proiettarla sul grande schermo. Ma è riuscito anche a portare lo spirito narrativo underground nei più importanti festival mondiali riscuotendo sempre grande successo. Kowalski è una persona a tutto tondo che unisce anima e intelletto, umanità e professionalità, empatia e impegno. Al Film Festival dei Diritti Umani presenta il film On va tout Péter, in cui affronta il tema del lavoro, dei diritti e della gestione dei conflitti. L’opera presentata al Festival di Cannes è decisamente riuscita, con un montaggio, delle riprese e una fotografia meravigliosi, oltre ad una capacità tutta personale che caratterizza il regista di saper raccontare la realtà.

Dopo aver vinto a Venezia nella sezione Orizzonti della 62 Mostra d’Arte Cinematografica con il film East of Paradise e aver presentato la sua opera del 2019 a Cannes, è entrato quasi di diritto, come si usa dire, al Film Festival dei Diritti Umani di Lugano. Questi sono tutti Festival europei dove la sua opera è stata riconosciuta universale. Ha qualcosa da dirci in proposito? 

Quando si parla di diritti umani si pensa spesso al cliché degli africani, degli emarginati, delle persone che vivono difficoltà particolari. Ma i Diritti Umani toccano e possono toccare ognuno di noi, in Occidente e sul lavoro soprattutto. Il tema del diritto per gli occidentali e la sicurezza di un lavoro e nel lavoro fino ad oggi non erano temi particolarmente sentiti, ma adesso le multinazionali hanno reso molto complicato avere qualche certezza.

Appartenere a culture diverse l’ha facilitata nel cogliere certi aspetti della realtà?

Tutti i film che ho girato fino ad oggi sono legati al tema dei diritti umani. Qualsiasi tema abbia scelto, sia che abbia parlato di punk o di pornografia, ha a che fare con la lotta delle persone per essere allo stesso tempo accettate e considerate diverse. Accolte quindi nella loro diversità. Ciò che io riprendo è una realtà non una fiction e ciò che mi interessa principalmente è osservare le persone connotando gli avvenimenti di poesia grazie alla musica e a immagini accattivanti. Prendiamo l’esempio dalla musica pop, anche se il testo della canzone è ben scritto e impegnato ma la musica non è armonica la canzone fallisce perché risulta noiosa.

D’accordo con lei Maestro. Anche il suo ultimo film, On va tout Peter, ha delle immagini bellissime e una musica altrettanto bella. L’azzurro del cielo e il verde del paesaggio evocano spazi inesplorati e le riprese dei piccoli dettagli lo rendono assolutamente poetico. 

Tutti sanno che nei miei film si parla di lotte, ma la particolarità della mia modalità registica sta nel seguire la storia della lotta attraverso i personaggi. Sono loro che costituiscono la storia e insieme riescono a formare il tutto. A questo proposito vorrei citare il Neorealismo italiano dove i volti e i personaggi costruivano la storia. Ho sempre apprezzato molto questa corrente cinematografica.

In questo film, On va tout Peter, i primissimi piani sui volti dei personaggi e i dettagli che lei illumina ci mostrano un uso particolare della macchina da presaa. Ci può dire qualcosa in proposito?

Il film è stato girato per nove mesi e l’obiettivo generale è stato quello di raccontare una storia ma, come ho già accennato sopra, ogni persona ha una sua storia e tutti insieme scrivono la storia collettiva. Individuo e società, quindi. Nel riprendere ogni persona faccio una coreografia adatta a ciascuno.

La musica nei suoi film è molto importante, è come se lei facesse una rivoluzione attraverso di essa.

La questione della musica nei film è importantissima perché può uccidere un film se non è appropriata e non accompagna le immagini. Io cerco sempre una musica che metta in risalto ciò che intendo mostrare nel film, che deve essere qualcosa che aiuta e non che uccide l’opera.

Come riesce a conciliare la parte poetica a quella rivoluzionaria?

L’aspetto rivoluzionario è particolarmente interessante perché sta negli occhi di chi osserva. Ciò che intendo dire lo spiego con degli esempi. Anni fa ho realizzato un film sulla politica degli yankees e i politici hanno usato il film contro queste persone. Ciò non era certo il mio intento. Un’altra volta ho cercato di evidenziare la vita di persone che erano state in carcere, ma questo film non è stato fatto vedere in un Festival perché ritenuto pericoloso. Alcuni politici sembra che temano i miei film e spesso li usano come auto-difesa leggendoli in maniera diversa da come li leggono coloro che ho inteso mettere in luce. È un paradosso che però ritroviamo anche nei film di Pasolini. Il film sugli yankees lo hanno fatto vedere nella prigione più grande di New York e i prigionieri per vederlo non hanno neppure potuto spegnere la luce. I prigionieri hanno sostenuto che quanto hanno visto ha fatto loro comprendere i motivi per i quali erano finiti in carcere. Come dicevo sopra, un’opera può essere guardata con occhi diversi e certamente assume significati diversi se viene fatta vedere sia ai politici sia ai prigionieri.

Maestro, lei conosce sicuramente Michael Moore. In maniera diversa, anche lui cerca di mettere in evidenza tutto ciò che potrebbe esser trasformato nel sociale. Ma le sue opere assumono per lo più l’aspetto di un documentario, mentre i suoi sono veri e propri film.

Si, certo, conosco Michael Moore. Anche lui è un regista impegnato. Come ha detto lei, ha una maniera diversa di esporre le questioni.

 In On va tout Petér c’è una bellissima immagine dove vengono messi in luce tanti volti di operai della fabbrica di proprietà di una multinazionale automobilistica. È da considerarsi cinema nel cinema o metacinema?

Forse è vero. È cinema nel cinema, ma nel momento in cui l’ho girato devo dire che la Dea dei documentari era su di me. Le foto rappresentano tutte le persone che lottano per la loro sopravvivenza economica. In quel momento stavo cercando la verità sui volti delle persone. Il mio obiettivo quando realizzo film è quello di mostrare come l’aspetto più importante della storia sia l’azione collettiva, e le foto in questo caso rappresentano un’azione collettiva che esprime forza. Oggi sentiamo molto la mancanza di questa collettività, le persone non vanno quasi più a votare, ma così facendo creano uno squilibrio di forze. Si possono raggiungere risultati soddisfacenti se si riesce a ritrovare il senso della collettività.

Maestro, le sue parole mi fanno venire alla mente la Teoria dei giochi di John Forbes Nash, matematico ed economista statunitense, Premio Nobel per l’economia. La solidarietà porta bene al gruppo e alla lunga anche all’individuo.

Durante la visione di questo film si è verificata una forza collettiva nel pubblico. Si sta cercando di comprendere le reazioni del pubblico che ha mostrato vicinanza ai lavoratori. In tutto questo c’è una speranza che lascia intravedere la capacità di comprendere che una lotta collettiva che sia portatrice di gioia può migliorare le cose. Il cinema di Hollywood funziona molto bene al botteghino, ma spesso evita i problemi e porta fuori da essi. Questo mi fa venire in mente che cercare di risolvere le cose in questo modo è esattamente come andare a mangiare un hamburger da McDonald. I miei film vogliono mostrare le cose per ciò che sono al fine di poter instillare una speranza verso un mondo migliore dove qualcosa può essere modificato.

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