Il Varco: intervista a Federico Ferrone, Michele Minzolini e Wu Ming2
Il Varco racconta la dimensione della guerra attraverso un punto di vista interno alla stessa, nella volontà di rappresentarla come una realtà contiguità ma separata rispetto alla vita ordinaria, quasi si trattasse di un vero e proprio limbo esistenziale. I registi Federico Ferrone, Michele Minzolini e lo sceneggiatore Wu Ming 2 ne hanno parlato con noi
Il Varco racconta la dimensione della guerra attraverso un punto di vista interno alla stessa, nella volontà di rappresentarla come una realtà contiguità ma separata rispetto alla vita ordinaria, quasi si trattasse di un vero e proprio limbo esistenziale.
Federico Ferrone. Secondo me la questione del punto di vista interno alla vicende di guerra nasce anche dalla scelta di utilizzare un protagonista che la vive in prima persona. Questa opzione ha come conseguenza quella di raccontare cos’è la guerra per un individuo perché la voce off che ci narra la storia è la sua e, in qualche modo, uno dei pretesti del montaggio è quello di far sì che immagini che in realtà sono state viste e girate da occhi differenti siano fatte risalire al suo punto di vista. Quindi, il film evita di documentare la campagna di Russia con quella dimensione polifonica per cui uno vede una cosa e uno ne vede un’altra, uno la racconta in un modo, uno in un altro. In questo caso siamo ingabbiati dentro la prospettiva di un unico personaggio e non possiamo uscirne. È perciò inevitabile non restituirlo senza far coincidere il suo sguardo con la dimensione della guerra. Se così non fosse stato avremmo rischiato di fare una voce off che fosse solo descrittiva e non realmente protagonista.
Michele Manzolini. In realtà è un personaggio unico ma le idee che ne strutturano i pensieri sono collettive perché aldilà della diversa provenienza dei materiali di archivio, le fonti di ispirazione per questa storia sono diari o memoriali di alcuni soldati partecipanti a quella campagna. Dunque, il personaggio è la risultante di molti punti di vista. Per noi era importante che si costruisse il suo presente durante il viaggio della campagna di Russia, quindi, come dicevi tu, che il perdersi nella steppa prima dell’arrivo dell’inverno diventasse il limbo della sua vita; quest’ultima raccontata con squarci del passato relativi alla moglie e ai ricordi della sua prima campagna in Etiopia, uniti alle immagini del presente e, dunque, dell’Ucraina in cui il protagonista finisce per smarrirsi.
Quello che ho apprezzato è la corrispondenza tra l’assunto del film, di cui abbiamo appena parlato, e il ruolo svolto dal protagonista. Lungi dall’essere una macchina da guerra, il suo lavoro dipende dalla capacità di ragionare su ciò che ha di fronte, essendo incaricato di interrogare i prigionieri per ricavarne informazioni. Oltre a essere un espediente narrativo coerente con la progettualità del film, ciò fa gioco alla costruzione della dimensione interiore di cui si diceva.
Wu Ming 2. Quel ruolo lì gli dava anche la possibilità di essere quel soldato pensante che ragionando sulla sua esperienza arriva a cambiare idea sulla sua partecipazione alla guerra e, in generale, sulla sua adesione al fascismo, perché in fondo la campagna per lui è un momento di svolta anche nella sua biografia. Il fatto di poter avere dei contatti con il nemico, interrogare prigionieri, sentire che questi parlano di massacri di ebrei, avere notizie che i soldati impegnati in prima linea non avrebbero mai saputo gli permette di cominciare a fantasticare sulla possibilità di disertare e, forse, di unirsi al nemico, di passare le linee, continuando ad essere una persona pensante anche come disertore. Se il soldato macchina da guerra non saprebbe cosa fare senza il combattimento lui immagina di poter riattraversare tutto lo spazio percorso e di tornarsene a casa.
Il vostro protagonista è un “uomo di frontiera”, abituato a venire a contatto con l’altro e con il diverso da sé. Motivo, questo, che diventa spunto di riflessione per il vostro film: ne Il Varco esiste infatti un continuo confronto tra l’io e l’altro.
MM. È proprio così, Lui è una figura individuale e quasi ideale di una persona che si trova suo malgrado a dover riflettere sul passato e su quello che c’è al di là della frontiera, al di là della lingua, al di là della propaganda. In questo senso è una specie di presa di coscienza, forse troppo tardiva perché possa cambiare qualcosa, ma perlomeno sufficiente a capire quello che lui è stato, almeno come essere pensante e come essere umano prima della catastrofe finale.
F.F. Non a caso il fascismo è stato molto spesso una negazione dell’alterità e all’opposto fautore di una comunità uniforme, unanime, in cui tutti la pensano come il capo.
Il Varco tutto questo lo mette bene in evidenza. L’io del protagonista è quello di un essere pensante e diverso dall’ego con cui il fascismo esaltava il culto del capo e dell’uomo forte.
W.M2. Si, e quindi questo rapporto con l’altro, questo stare sul confine è anche un mettere in crisi il fascismo stesso. Non per niente quest’ultimo ha sempre avuto sacro terrore dei confini, perché lì puoi incontrare l’altro.
Parliamo della forma del film e in particolare del rapporto tra testo e immagine. Ne Il varco Home Movies e filmati d’archivio fanno da supporto visivo a una sceneggiatura in parte ispirata a resoconti di soldati e scrittori come Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e altri ancora.
F.F. La struttura nasce da una volontà di unire l’Archivio Nazionale del film di Famiglia di Bologna con quello dell’Istituto Luce. Ci siamo chiusi per un paio d’anni in questi due archivi a guardare più immagini possibili a partire dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta. In realtà, abbiamo visto quasi tutto quello che esisteva al Luce in termini di home movies. L’idea era di ragionare su certe questioni della seconda guerra mondiale e siamo rimasti sbalorditi dalle immagini di Chierici e Branzini che sono i due autori principali di home movies su cui si basa la maggior parte del film. Da esse siamo partiti per cominciare a costruire una storia per cui abbiamo iniziato a guardarle cercando dei possibili snodi e individuando quello che poteva essere il personaggio e la sua traiettoria. Nel farlo ci siamo serviti di diari, memoriali o anche solamente delle biografie dei due cineamatori, dai quali il personaggio finale ha preso molte cose. La scrittura è andata di pari passo e a poi ha portato a un primo montaggio che è stato più che altro una messa insieme del materiale. Questo ha portato a una nuova fase di scrittura e poi a un ritorno al montaggio e così via fino alla fine.
M.M. Tenevamo al fatto che potesse essere allo stesso tempo un’operazione cinematografica e narrativa poiché ci sono anche molti spunti letterari.
Immagino infatti che il tipo di scrittura, poetica e letteraria, sia voluta e che abbia un particolare significato all’interno del film.
M.M. Certo. Oltre al fatto che doveva essere molto cinematografico e che la parte visiva inevitabilmente doveva fare da guida, l’idea di usare la finzione non è solo un nostro vezzo ma anche la possibilità di poter attingere a immagini diverse e quindi, appunto, a Cuore di tenebra, trasposto nella campagna di Russia, a Mario Rigoni Stern stesso e a Nuto Revelli che costituiscono due fonti letterarie importanti, con un finale che può suggerire spunti di lettura: ci sono dei fantasmi sia metaforici che reali. Ci sono vari elementi e vari stati emotivi che fanno parte del testo e non è neanche facile dire esattamente quale prevalga sull’altro. Il punto della finzione è questa, ossia poter inserire in un’unica narrazione elementi diversi con la libertà tipica di un racconto.
Dal punto di vista pratico, com’è avvenuta la selezione e la sintesi del materiale che è entrato a far parte del testo?
W.M2. Sicuramente è un procedimento molto diverso rispetto a quando le immagini te le vai a creare sulla base di quello che hai scritto. Questo ti dà modo di buttar giù un po’ tutto quello che vuoi perché poi andrai a girare di conseguenza. Qui, invece, in qualche modo è avvenuto il procedimento contrario, cioè piano piano avevamo in mente la biografia che volevamo raccontare e anche a parole, diciamo a livello di soggetto, chi era questo personaggio. Abbiamo cominciato a capire che volevamo che avesse un’esperienza precedente rispetto alla campagna di Russia, nella quale invece non si era posto problemi e in cui era stato più macchina da guerra, diciamo. Però, chiaramente, bisognava trovare le immagini. Quindi nel momento in cui queste sono saltate fuori – mi riferisco a quelle della campagna di Etiopia che si vedono – allora chiaramente si è potuto costruire tale riferimento.
Quindi c’è stato prima un montato?
W.M2. In qualche modo, diciamo che le immagini dettavano quello che si riusciva a dire e quello che si poteva dire. In certi casi però taluni passaggi che avevamo scritto sono stati scartati perché non avevamo le immagini per dirli o per sostenerli. Quindi è stato veramente un dialogo continuo tra un primo abbozzo di soggetto e di personaggio e poi pian piano quello che nelle immagini si riusciva a trovare e che anche piaceva di più, perché non nascondiamo che il film per certi versi ha anche l’obiettivo di mostrare qualcosa di straordinario a un pubblico che magari altrimenti in un archivio non se le andrebbe a cercare e, invece, attraverso una storia finirebbe per non vederle. C’erano certe immagini che, avessero o meno aderenza con la storia ci stessero, intendevamo far vedere trovando poi il modo di inserirle all’interno della vicenda.
A livello cinematografico l’uso della musica appare decisivo. Prendiamo la scena iniziale: lì il sonoro produce uno straniamento che è lo stesso del soldato di fronte alla guerra e che nello spettatore deriva dal non aspettarsi di sentire un pezzo come quello da voi scelto.
F.F. È importante dire che tutte le immagini che noi utilizziamo sono in origine prive di sonoro, quindi mute. Siamo partiti da una tabula rasa totale e abbiamo dovuto immaginare una storia che si svolgesse negli anni Quaranta, che fosse comprensiva di flashback e che però dovevamo raccontare nel 2019. Non era una cosa facile e per riuscire a farla abbiamo coinvolto fin da subito un musicista che è anche un sound designer, Simonluca Lautempergher. C’era poi da risolvere il problema relativo al linguaggio. La lingua dei diari in certi casi l’abbiamo tenuta pari pari, ma in altri non era fluida e quindi andava tagliata e adattata al suono. Al tempo stesso, era necessario mantenere una certa filologia e un certo rispetto delle immagini e, quindi, si trattava di organizzare un lavoro musicale e di scrittura che doveva procedere a strati: da una parte la musica, sempre più raffinata, sempre più giusta, sempre più adattata con il montaggio che, in realtà, ne ricalcava le note e non viceversa; dall’altra, la lingua ricreata dalla fusione tra il lascito dei diari e di ciò che avevamo scritto noi. Il risultato ha subito ulteriori modifiche dopo una prima lettura del testo e, dunque, la versione finale altro non è che la conseguenza di un costante lavoro di rielaborazione e di raffinamento.
Le parole nel film sono calibrate e centellinate e non mancano immagini lasciate prive di sonoro, un escamotage che permette allo spettatore di contemplare e di ragionare su quello che sta vedendo.
F.F. Un po’ pomposamente, ti dico che noi volevamo fare innanzitutto un film. La differenza tra cinema e letteratura è che il primo è sostanzialmente immagini e visione con la parola e la musica poste al suo servizio. Se avessimo voluto fare un lavoro didascalico non ci saremmo comportati così e Il Varcosarebbe stato completamente diverso. Dunque, certi momenti non c’era bisogno di commentare le sequenze con ulteriori parole.
L’ho trovata una soluzione efficace perché mi ha dato modo di metabolizzare quello che stavo vedendo.
W.M2. Per quanto riguarda la scrittura si è trattato soprattutto di un lavoro a togliere rispetto alla stesura iniziale perché, influenzati dai diari e dalla lettura, ti viene da scrivere di più, ma poi ti rendi conto che le immagini dicono così tanto che non c’è bisogno di aggiungere altro.
Il vostro film riflette due volte: la prima attraverso i ricordi contenuti negli home movies, la seconda mediante le osservazioni del protagonista. È dunque una narrazione stratificata.
M.M. In quel senso sì. A un certo punto, abbiamo capito che utilizzando quelli che potevano essere i suoi flashback e lasciandoli senza commento ognuno di noi era indotto a sovrapporvi se stesso colmando quel vuoto con i propri ricordi.
Ogni tanto le immagini vanno di pari passo con il commento, altre invece assumono una significato subliminale.
F.F. Come dici tu, si tratta di un equilibrio tra questi due elementi. Non c’è nessun desiderio punitivo nel far sì che lo spettatore si senta disorientato all’interno della storia, tant’è che più di una volta gli forniamo qualche appiglio. Però, è necessario rammentare che stiamo parlando di una vicenda così unica da non avere bisogno ogni volta di sottolineare cosa sta accadendo, anche perché a quel punto sarebbe stato un’altra cosa.
Ogni tanto agli home movies alternate immagini contemporanee, nel senso che alcune scene le avete girate voi. Una scelta che sembra confermare la frase iniziale in cui dite: “La guerra c’è stata e c’è ancora”, e dunque il collegamento sul piano visivo tra ieri e oggi.
F.F. Sì, diciamo che quello è un dato di fatto. Laddove hanno combattuto gli italiani nella seconda guerra mondiale si combattono oggi Ucraina e Russia. Da ciò la riflessione con un film fatto di fantasmi e di visioni, con il protagonista che pensa al suo passato e a quello che potrebbe essere. Tra gli elementi che rompono la linea principale della narrazione c’è anche l’ipotesi di un futuro, che poi è il 2019. Il nostro presente diventa il futuro del protagonista in un cortocircuito che apre all’immagine di un paese che non ha risolto i suoi conflitti. Quindi, gli spezzoni filmati da noi sono quasi una forma di evasione, di premonizione, di delirio e di sogno del protagonista che entra nella narrazione contemporanea del film collocata tra il ’41- ’42.
Il significato del titolo, dunque, è forse la possibilità di rompere la dimensione di limbo in cui si trova il protagonista e dunque di disertare anche psicologicamente, di trovare una via alternativa?
M.M. Anche. Si tratta di un termine militare derivato anche da una serie di canzoni dove si parla sempre del varco e di passare la trincea, della breccia o del varco che permette ai soldati italiani di tornare a casa dopo la ritirata, ma anche il passaggio tra futuro e passato. È una parola che in qualche modo ha tante suggestioni.
W.M2. Ci sono tanti varchi dentro il film che vengono attraversati, che si aprono e si chiudono tra presente e passato, possibilità di vita reale, sogno e delirio.
Il vostro film, tra le altre cose, è anche un on the road perché di fatto è il racconto di un viaggio.
M.M. Come dice Federico, è anche il racconto di un’avventura che non è sempre fatta di cose gravi, perché arriva sì al cuore della guerra ma durante il suo percorso ha a che fare anche con i balli dei soldati russi e quelli degli zingari rumeni. In questo genere di film c’è l’andare verso una frontiera sconosciuta, cosa che probabilmente era di per sé affascinante, sia per i soldati in partenza per la guerra, sia per quelli di loro che sarebbero andati a filmarla. Il loro modo di riprendere non era mai turistico, piuttosto un modo di raccontare l’emozione di un viaggio verso l’ignoto.
Il finale, struggente e poetico, è davvero molto bello. Si parlava di film non retorico e non didascalico e così è fino alla scena finale in cui consegnate il personaggio a un epilogo aperto ma anche chiuso, capace di far sentire tutta la nostalgia che attanaglia il protagonista. Sull’immagine del bambino che dorme sulla spalla della madre la voce afferma: “Qualcosa che non è stato, che non potrà più essere”.
W.M2. Da un certo punto di vista è proprio un finale di genere avventuroso. Se uno va a prendere certi libri di avventura ce ne sono di uguali nel loro addentrasi verso l’ignoto. Le avventure di Gordon Finn è proprio quella cosa lì, cioè l’andare verso il bianco in cui poi ti perdi. D’altra parte, secondo me, quel finale cerca anche di rendere la psicologia del fascista che un po’ troppo tardi si rende conto e vorrebbe tornare indietro, cosa che, in fondo, è anche la psicologia degli italiani durante la seconda guerra mondiale. Quanto sarebbe stato bello non aver fatto questi vent’anni, poter tornare indietro senza che però ciò sia possibile. Questo per dire che Il Varco non è un film di redenzione e che il protagonista non si redime. Però gli piacerebbe tanto, e in effetti all’Italia sarebbe piaciuto tanto dagli anni Cinquanta in poi, poter dire: “Non siamo mai stati fascisti, non è successo niente”. Tra l’altro, da noi si è rifatta la medesima cosa, mettendo allo stesso posto figure del fascismo.
Infatti, si tratta non solo di un film attuale ma di un’opera che può essere anche d’insegnamento. Quando uscirà il film e dove verrà distribuito?
Il film uscirà in sala a partire dal 9 Ottobre e distribuito dall’Istituto Luce.