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Perso Perugia Social Film Festival: i documentari come specchio del mondo passato, presente e futuro

Al Perso Perugia Social Film Festival, che si tiene a Perugia dal 5 al 13 ottobre, si pone l’attenzione sul cinema documentario internazionale e nostrano

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Nella sezione Percorsi, riservata ai cortometraggi a tematica sociale per autori under 35, incontriamo Eraserhead – Rimozione sicura di Edorado Genzolini.  Il film si contraddistingue, come lo stesso autore ha affermato in sala, per non avere nessuna “storia” ma piuttosto tante stories di Instagram. Il cortometraggio risente sia a livello concettuale che di montaggio, nel quale si trova la sua stessa essenza, un sostituito della dimensione reale e, in una temporalità ridotta a 15 secondi, l’idea che si porta avanti è come il social Istagram sia in grado di riscrivere le nostre vite. Eraserhead non solo mette su schermo il nostro bisogno di autorappresentazione, ma pone in luce quella necessità puramente umana legata alla conservazione del rimosso dalla memoria. Ecco, quindi, che il sottotitolo “rimozione sicura” si lega, a doppio filo, non solo alla dimensione umana, ma a quella caratteristica prettamente tecnologica del conservarne traccia per sole 24 ore. Un condensato di storie, di vite ed emozioni scorrono in un loop senza fine, tratteggiando non solo un nuovo modo di conservazione della memoria umana, ma uno scenario post-apocalittico di cosa effettivamente rimarrà di questa epoca digitale. Il cortometraggio non ha solo il merito di individuare nuove tipologie narrative e di montaggio cinematografico, ma evidenzia come la nostra storia personale sia effimera e passeggera.

Per la sezione Perso Short Award, dedicata ai cortometraggi internazionali, si fa avanti un delicato affresco d’animazione, proveniente dalla Germania: Iktamuli, firmato da Anne-Christin Plate. Il progetto è la personale accettazione di una madre nei confronti del figlio disabile; la stessa regista ha dichiarato come dalla passione per il disegno sia scaturita, poi, una realizzazione filmica tangibile di tutti quei sentimenti ed emozioni contrastanti nei confronti della disabilità del figlio. Ecco che Iktamuli, parola inventata dalla stessa regista come una sorta di conforto nei momenti bui, sia una realizzazione su carta di tutti i pensieri e sentimenti che muovono la vita di una madre verso le lotte di accettazione emotiva, fortemente ambivalente, che prova nei confronti del figlio. Il cortometraggio si delinea così come una successione di scene a matita verso una vera e propria catarsi interiore disegnata.

Noi di Benedetta Valabrega, per la sezione Perso Cinema Italiano, è il racconto autobiografico di tre sorelle che ogni volta che si vedono litigano così come anche il loro papà e suo fratello facevano, e così come, prima di loro, gli stessi nonno e fratello. Il film ruota intorno alla domanda su quando questo conflitto sia effettivamente iniziato. In un viaggio che tocca ora il fascismo, ora la questione ebraica, la regista indaga una possibile risposta a delle dinamiche familiare forse di origine lontana. Il film colpisce per la maturità artistica che, grazie a un montaggio lineare, asciutto e senza estetismi inutili, parla con grande capacità di una personalissima tematica familiare. La macchina da presa è il terzo incomodo che riprende qualunque occasione di ritrovo familiare e, con estrema naturalezza, cattura momenti intimi, confessioni, ricordi, viaggi. L’occhio che riprende coincide con quello della stessa regista che usa la macchina come un confessionale e quasi come suo stesso prolungamento, sebbene si avverta talvolta la difficoltà e il disagio di continuare a riprendere situazioni personali e intime. L’aspetto che forse più colpisce è quello di aver utilizzato il genere documentario per raccontare le ricorrenti e personalissime liti familiari, apparentemente tramandate da generazione in generazione. Il mezzo cinema, quindi, diventa ciò che scopre e vede quello che all’occhio umano non era consentito vedere: un elemento soggiacente alla psiche dei discendenti Valabrega, nella loro formazione e nelle loro scelte di vita, che a distanza di anni sembra ancora avere un peso considerevole nelle loro vite. In mezzo quindi al tono scanzonato che spesso si innesca durante la visione, si affaccia una riflessione intima generazionale e di come un vissuto traumatico della nostra contemporaneità si tende a rimuovere. L’atteggiamento sembra quello di estirpare il peso di eventi del passato, di cui le generazioni successive non hanno scelto di farsi carico: non deve quindi stupire se nel corso del film si nota una certa insofferenza da parte delle tre sorelle nei confronti della loro storia e di come sia stata data grande importanza nella loro formazione alla storia della Shoah. Un sentimento che esprime un fardello che le tre ragazze non avrebbero voluto portare, che non le compete, non riguardante la loro generazione, ma che a causa di dinamiche ed eventi hanno dovuto affrontare. La macchina da presa con grande abilità riprende la vita di queste tre sorelle litigiose in cui si parla al momento sbagliato o, al contrario, non si parla al momento opportuno; quello che rimane è la sensazione di un qualcosa di non detto, una forte incomprensione o un evento, forse un litigio, mai veramente avvenuto. Noi fa emergere come in ogni famiglia vi sia un proprio narrato, un proprio racconto con specifiche parole tramandate: delle molliche di pane che tratteggiano sentieri da percorrere incessantemente da nonni a nipoti. Noi diventa così un ritratto non solo personale, ma collettivo verso tutte quelle dinamiche nascoste e sfuggenti che ripetiamo e perpetuiamo nel sistema famiglia. Le domande quindi del padre su “chi sia il responsabile? E chi debba essere punito per la Shoah?” si estendono dalla dimensione privata, come un qualcosa di irrisolto, a una dimensione più ampia e collettiva.

Per il concorso internazionale incontriamo The Observer di Rita Andreetti, che ritrae la figura del dissidente artista cinese Hu Jie e del lavoro che, attraverso il suo cinema documentaristico, ha dato alla memoria storica. Nella volontà di restituire voce a questo combattente, che grazie ai suoi oltre 30 documentari, ha fatto luce su alcuni fatti di un passato volutamente celato. Da sempre il pilastro per il controllo del pensiero è stato eseguito tramite la soppressione, se non la quasi scomparsa, di un fattore culturale libero: ecco quindi che nel 2014, quando viene chiusa l’undicesima edizione del Beijing Indipendent Film Festival, si segna una cesura netta da parte del governo cinese di repressione non solo culturale, ma anche politica, con la volontà di cancellare qualsiasi forma di dissenso. Ecco quindi che un eroe del quotidiano, il regista Hu Jie, viene filmato nel suo impegno costante verso la non cancellazione di eventi storici per le future generazioni; già cresciute con una cecità storico-culturale. Andreetti presenta il regista tramite le sue stesse opere e non solo, ma va oltre indagando anche il suo lato intimo e familiare: tramite una mise en abyme in cui è il regista che riprende il regista e il documentario riprede se stesso, Rita Andreetti descrive un uomo che si prende il tempo per rispondere e rimane fiducioso nell’affermazione espressa nelle sue opere. L’elemento che colpisce è la perseveranza e l’impegno dell’artista cinese verso una ricerca irrefrenabile della verità e quel bisogno di lottare affinché certe storie non siano dimenticate, ma mostrate in quanto portatrici di verità.

Alessia Ronge

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