Sono figlio della commedia all’italiana: conversazione con Stefano Fresi
Nell'ambito del progetto “Cinema per la Scuola”: L’ALTRA ROMA - Primavalle, sguardi da una periferia della modernità, Lunedì 7 Ottobre alle ore 11.00 presso la Multisala Andromeda di Primavalle Stefano Fresi incontra gli studenti dell’Istituto Statale “Vittorio Gassman”. Del rapporto tra cinema e società, oltreché del mestiere dell'attore, abbiamo parlato con il protagonista di C'è tempo, ultimo film di una carriera in costante progressione
Lunedì 7 ottobre alle ore 11.00 al Multisala Andromeda di Primavalle incontrerai gli studenti dell’Istituto Statale “Vittorio Gassman” per parlare con loro di cinema. Nella società della comunicazioni, una scuola orientata alla comprensione delle immagini e in particolare al discrimine tra il vero e il falso è chiaro indice di una progettualità che va oltre i confini del cinema e prepara alla comprensione di un mondo sempre più complesso.
Sono d’accordo. Direi che è fondamentale la presenza di una consapevolezza circa l’importanza dell’immagine accompagnata dalla diffusione del concetto imprescindibile di visione del film in sala. Ciò che dirò fino alla nausea ai ragazzi è quello di andare a vedere il cinema nelle sale perché si tratta di un atto sacrale e come tale si deve compiere nei tempi e nei luoghi preposti. La sala cinematografica è il tempio della proiezione perché l’impatto emotivo che ha l’immagine spalmata su dodici metri di schermo non sarà mai lo stesso che si ha sul divano di casa con il telefono che può squillare da un momento all’altro, interrompendo la magia che regista e attori si sono sforzati di metterti intorno e di fronte. Questa è una cosa fondamentale, perché i giovanotti di questa epoca, purtroppo o per fortuna – dipende dal punto di vista-, sono bombardati dalla possibilità di fruizione dei video su YouTube, dalle piattaforme di internet e dai cellulari, e così facendo si abituano a fruire di contenuti attraverso mezzi manifestamente limitati, col rischio di perdere le componenti essenziali dell’opera come le luci, i colori, i costumi, le musiche, il suono, cosa che lo schermo da 5 pollici non può riprodurre.
Il sottotitolo del programma recita: Cinema per la scuola” – L’ALTRA ROMA – Primavalle, sguardi da una periferia della modernità. Mi sembra che l’ossimoro in esso contenuto colga uno dei cambiamenti dei nostri tempi ovvero la centralità ritrovata delle periferie.
C’è anche da dire che ormai la città è talmente cresciuta da rendere indistinguibili i suoi reali confini. Io non so quanti anni abbia tu, ma penso che siamo più o meno coetanei e noi ci ricordiamo una Roma in cui aveva ancora senso parlare di periferia, ma adesso che l’hinterland arriva praticamente a Guidonia (ride, ndr).
È vero!
In realtà, quando vivevo a Corso Francia dicevano che abitavo in centro, mentre negli anni Sessanta in via di Vigna Clara c’erano le pecore. Quindi nell’arco di quarant’anni anche il concetto stesso di periferia è cambiato. Quello che è importante è che questi luoghi siano valorizzati e, parlando dal mio punto di vista, intendo che ci sia la presenza di sale cinematografiche, di scuole di cinema e di recitazione. In generale, della possibilità di coltivare da parte degli abitanti del luogo un forte interesse senza doversi spostare troppo. Le opportunità sono tante perché di posti dismessi dal comune e pronti a diventare una sala ce ne sono, mentre adesso un numero notevoli di locali continuano a chiudere proprio perché non c’è più la cultura della sala, della visione collettiva del film.
Il cinema e la scuola. Per costruire nuove generazioni e nuovi modi di pensare è necessaria un’idea. Il cinema oggi sembra avere gli strumenti giusti per far arrivare tale idea alle nuove generazioni. Forse è uno degli strumenti più efficaci.
È uno strumento efficace e, tra l’altro, spesso i ragazzi non vedono film che parlano di loro. Questo succede perché a monte latita la presenza di un progetto specifico capace di coinvolgerli: non c’è da parte delle agenzie comunali la giusta difesa del settore perché si dà per scontato la supremazia di piattaforme come Netflix. Tra l’altro, queste ultime, spesso utilizzate in maniera fraudolenta, finiscono per rovinare l’intero sistema cinema. I ragazzi rischiano di non sapere che esistono cose fantastiche e di notevole stimolo. Uno scopre di poter essere innamorato di qualcosa solo se c’è qualcuno in grado di mostrarglielo con passione e con amore. Al contrario, isolandosi dentro la propria stanza si perde la possibilità di vedere film, di incontrare scrittori e registi che parlano del loro film. Il rischio è di non sapere che esistono certe cose. La scuola in questo ha un ruolo fondamentale.
Tra gli argomenti al centro della discussione ci sarà il cinema dei maestri e in particolare del Neorealismo. Chiedo a Stefano Fresi su quale cinema si è formato e quale lo ispira non solo come spettatore?
Io sono un po’ un figlio della commedia all’italiana, ma sono un amante di Kubrick. Sono cresciuto con Federico Fellini, ma anche con Truffaut. Sono un amante del cinema a tutto tondo. Ne ho fatto la mia vita perché lo amo profondamente e l’ho studiato, quindi non ne ho uno di riferimento. Per quanto riguarda il tipo di recitazione, i miei punti di arrivo e i miei fari sono Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi, insomma i grandi beniamini del cinema italiano. È un amore veramente a tutto tondo. Non ti saprei dire cosa mi abbia ispirato.
Tra l’altro tu esordisci nel cinema con Romanzo criminale in un ruolo che ti vede impegnato a cantare laddove la musica e il canto sono stati il tuo primo amore.
È stata un’idea di Michele Placido che, conoscendo la mia passione per il canto, si è inventato questo escamotage dicendomi: “visto che lo sai fare, il Secco lo facciamo anche cantare”.
È questo un lato della tua arte che in qualche modo introietti nella recitazione, nel senso che nonostante una fisicità importante hai d’altro canto una leggerezza che ti permette di entrare e uscire da ruoli diversi facendoci dimenticare la figura del corpo. Dunque, ciò ti rende credibile nei tipi umani da te incarnati. All’imponenza fisica fai corrispondere uno sguardo angelico e fanciullesco.
Intanto, ti ringrazio per questo complimento meraviglioso. Poi penso che la leggerezza nasca dall’approccio che ho nei confronti di me stesso, nel senso che sono io il primo a dimenticarmi della mia forma fisica, perché tendo a non metterla davanti al personaggio. Cerco sempre di pensare all’anima, al cervello e al pensiero e alla storia del personaggio, indipendentemente dalla sua fisicità. L’attore e la fisicità sono importanti per la sceneggiatura, si può calcare la mano su una battuta, oppure su una scena, ma laddove non è importante che il mio peso sia x anziché y perché preoccuparsene?
Passando a un altro argomento, mi sembra che il punto di svolta della tua carriera sia stato il personaggio che hai interpretato in Smetto quando voglio di Sidney Sibilla. Sei d’accordo?
Si, quello è stato il primo ruolo importante in cui ho potuto far vedere ciò che so fare, nel senso che il personaggio aveva un arco di trasformazione molto ampio, passando da essere un genio della chimica fallito a fare il lavapiatti in un ristorante cinese, nella speranza di diventare cameriere. Poi, però, quando ha la possibilità di ritornare al primo amore riprende a fare quello per cui è portato, salvo cadere nuovamente. Quindi stiamo parlando di una notevole quantità di sfumature presenti in un unico personaggio. Ciò per un attore è meraviglioso perché puoi veramente spaziare da una cosa all’altra con grandissima gioia, permettendogli di interpretare, il che, di fatto, ha cambiato la percezione dei produttori e dei registi del miei confronti.
Da lì in poi la tua carriera è continuata in continua progressione. Da L’uomo che comprò la luna passando per La befana vien di notte e C’è tempo per giungere a Ma cosa ci dice il cervello?. Considerando la tipologia della storie viene da dire che la dimensione favolistica ti calza alla perfezione.
Il modo più giusto per prendersi sul serio è non farlo (ride, ndr). Credo che alla fine bisogna avere rispetto e umiltà nei confronti del personaggio e mettersi al servizio suo, del film, come pure dell’idea del regista. Quello che cerco di fare è nascondere quanto più possibile Stefano Fresi. Di lui mi prendo quello che mi serve, però cerco di essere un’altra persona.
Nel film di Soavi sei un personaggio di matrice burtoniana, in cui ti produci in una performance all’insegna del trasformismo e della fantasia.
Il massimo del trasformismo credo mi sia toccato con Il nome della rosa dove avevo oltre quattro ore di make up. Detto questo amo molto mettermi in gioco. Mi ricordo di una telefonata fatta a Edoardo Leo. Avevo letto il libro di Fabio Bartolomei (Io e la Giulia, da cui è stato tratto il film, ndr) e la sceneggiatura di Edoardo per cui lo chiamai chiedendogli cosa avrebbe detto se il mio personaggio fosse stato calvo. Lui mi ha risposto: “E che ti fai tutto il mese di Agosto con una calotta in testa? Guarda che è una cosa scomoda, rischi che poi ti faccia male la testa durante le riprese”. E io: “no, non hai capito, io me li raso!”. Lui era titubante sul fatto che me li sarei tagliati ma cosi ho fatto. Io mi metto sempre al servizio del film e mi piace molto poter cambiare anche in maniera radicale.
Ne La befana vien di notte interpreti per la prima volta un vero e proprio cattivo, anche se si tratta di un villain da favola.
Si, a parte quello di Romanzo Criminale è il mio primo cattivo. Mi è piaciuto moltissimo girarlo per quei magnifici costumi, per i colori e per Michele Soavi che è un grande narratore di storie.
Leggendo la tua filmografia non si può non notare la costante presenza di Paola Cortellesi. L’alchimia tra di voi è andata sempre più consolidandosi.
Ne ho appena girato un altro con lei e con Valerio Mastandrea che uscirà il prossimo inverno ed è la nostra quinta esperienza insieme. Tra di noi c’è un grande affetto, siamo molto amici anche nei confronti delle rispettive famiglie e poi io voglio molto bene a Riccardo Milani. Dunque c’è un rapporto di amicizia prima e poi una grande stima professionale quindi se ci chiedono di fare un film insieme siamo molto felici.
Venendo invece all’ultimo film in ordine d’uscita, mi pare che in C’è tempo Walter Veltroni ti offre un ruolo che riassume un po’ tutte le cose che abbiamo detto di te come attore.
Veltroni è uno che sa leggere e raccontare, quindi è riuscito a scrivere una storia che è credibile ma che allo stesso tempo è una favola piena di umanità, tenerezza e poesia, Insomma, è uno di quei film che ti fanno stare bene. Si esce dal cinema con una sensazione positiva.
Al termine di ogni intervista chiedo ai miei interlocutori di dirmi quali sono i loro film del cuore e ancora quali attori prediligono. Mi devi rispondere anche tu.
Ho un adorazione per tutta la cinematografia di Kubrick. Gli attori sono tantissimi. Tutti quelli della grande commedia italiana a cui mi ispiro e che conosco profondamente. Totò, Manfredi,Fabrizi Sordi, Gassman,Mastroianni, l’immenso Gian MariaVolontè, ma anche Tino Buazzelli sono fonte di ispirazione quotidiana. Siamo pieni di attori straordinari sia nel passato che nel presente. Oggi abbiamo Elio Germano, un interprete che amo, vado pazzo per Favino,Fabrizio Ferracane è un attore gigantesco, Lo Cascio è immenso, per non dire di Renato Carpentieri. Quando sono con i miei colleghi sul set li guardo come punto d’arrivo. Siamo pieni di attori e di attrici e di registi bravi e finalmente stiamo riscoprendo gli sceneggiatori perché, insomma, quando vai a riguardarti quelle commedie italiane e vedi che gli sceneggiatori sono Flaviano e Zavattini capisci perché funzionano così bene. Ora stanno tornando a essere protagoniste le storie. Pensa a Perfetti sconosciutiche è un film bellissimo di Paolo Genovese. Se avessero chiesto a un produttore di fare un film che si svolge tutto nel medesimo interno, con i protagonisti seduti a tavola, questi lo avrebbe giudicato non dinamico e senza movimento. Quando però c’è un testo che ha qualcosa da dire e lo metti in bocca ad attori del calibro di Mastandrea , Giallini, Battiston,Di Leo, ecco che il film diventa un capolavoro e incassa, perché il pubblico sa riconoscere le cose che gli possono piacere.