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Quando King non è King: Castel Rock, la prima stagione su Hulu

Castle Rock è una serie che incredibilmente ha più coerenza, più dignità, e più qualità di tantissimi altri prodotti derivati direttamente da King: la mano di J.J. Abrams si fa più pesante segmentando la narrazione, dislocando i piani temporali che sfociano ben presto nel delirio

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Si era già detto (parlando di Stranger Things) di quanto Stephen King faccia ormai parte dell’immaginario collettivo, in maniera impercettibile per alcuni, più evidente per altri: Castle Rock, il serial ideato da Sam Show e rilasciato da Hulu – che già con il mondo di King aveva avuto a che fare per la bella ma incompleta 22.11.63 –  non fa che confermarlo, con più forza, più classe e in maniera più stratificata.

Quando si entra a Castle Rock (immaginaria cittadina del Maine dove lo scrittore di Portland ha ambientato diversi suoi racconti), si respira qualcosa di familiare. Sembra di esserci già stati e che ogni angolo richiami qualcos’altro, ci si sente, insomma, vittime di un morbido deja-vu che dà la sensazione di essere a casa, tornando da un posto lontano. Ma è in effetti proprio una sorta di homecoming, quello che si fa accingendosi alla visione dei dieci episodi: perché la scrittura non solo strizza l’occhio al Fedele Lettore, ma è letteralmente costruita sull’universo letterario di Stephen King, richiamandone nomi, cognomi, ricorrenze, luoghi, avvenimenti: costruendo insomma una storia coerente intorno a quello che l’autore di IT ha tessuto in più di quarant’anni di illustre carriera, glorificandone in qualche modo i meriti, facendolo assurgere, in maniera definitiva e finalmente, a vera e propria icona letteraria.

Dopo 25 anni Henry Matthew Deaver torna a Castle Rock, il paesino in cui è cresciuto e che nasconde un innominabile segreto nel suo passato: a richiamarlo lì sono le uniche parole pronunciate da un ragazzo senza nome ritrovato, in gabbia, nei sotterranei della prigione di stato, recentemente rimasta senza direttore perché il vecchio si è inspiegabilmente suicidato.

King è un po’ il motore immobile da cui sprizzano via trame e sottotrame: eppure quello che in fondo più stupisce, però, di Castle Rock, è che incredibilmente questa serie ha più coerenza, più dignità, e più qualità di tantissimi altri prodotti derivati direttamente da King: la sua originalità dà legittimità alle geografie emotive che residuano da quelle fisiche. Perché non ci sono solo le caratteristiche prettamente stilistiche e letterarie del buon vecchio Zio Stephan, qui: si è davanti a una summa della sua poetica, sommersi dai suoi temi e ossessioni, al cospetto dell’Ombra che avanza. Ed è proprio qui, in questa congiuntura, che si incastra a perfezione l’ispirazione di J. J. Abrams, la sua mano si fa più pesante segmentando la narrazione, dislocando i piani temporali che sfociano ben presto nel delirio, mentre l’Immanente copre tutto con il suo manto oscuro.

“Non sono stato io: è questa città” è quello che ripetono continuamente i protagonisti di Castel Rock. Ci fanno diventare, dei mostri, o lo siamo già? Il senso dell’opera di King sta tutto qui, splendidamente inserito nelle note ambigue di personaggi che si riflettono uno nell’altro (letteralmente): i traumi del passato che gettano ombre lungh-issim-e sul presente, la necessità di credere -nel Bene, nel Male- e di essere creduti, la lotta costante e quotidiana per allontanare da sè l’irrazionale, l’imprevedibile, l’inconoscibile.

Ci sono state punte di diamante, nei 10 episodi che compongono la serie (la 1×07, o il labirintico ed esplicativo 1×09); e ci sono stati, nel finale, momenti in cui spiegare qualcosa equivaleva a porsi altre domande.

Qualcosa di sinistro sta per accadere: è questo il sentimento che impregna ogni episodio, è questa inevitabilità del Male che sgorga da King e viene resa tangibile da Abrams, è in questa ellissi narrativa che Castle Rock diventa quasi un caposaldo per come rielabora in maniera sottile ma potente materiale conosciuto restituendo qualcosa di inedito e coinvolgente, più aderente delle trasposizioni più fedeli di King, mentre gira per le strade di un universo narrativo ben definito che però, ad ogni angolo, dietro ogni svolta, sembra poter nascondere la sorpresa, il jump scaring, quell’imprevedibile banalità e quotidianità del Male che non ci aspettiamo ma sappiamo che ci aspetta.

Sempre.

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