Film da Vedere

Il ferroviere di Pietro Germi

Germi firma un melodramma che riprende la lezione del Neorealismo ma la reinventa in maniera molto personale e, limitando al minimo patetismi e facili soluzioni lacrimevoli, riesce a configurarsi come efficace spaccato sociale e umano. Prima collaborazione con due dei suoi sceneggiatori di fiducia, Luciano Vincenzoni e Alfredo Giannetti

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Il ferroviere è un film del 1956 diretto e interpretato da Pietro Germi, presentato in concorso al 9º Festival di Cannes. Nonostante sia stato accusato dalla critica autodefinitasi “di sinistra” di indulgere verso linee narrative “deamicisiane” (cfr. Morandini op.cit.), il film secondo altri interpreti invece evita le accuse di facile moralismo populista, grazie alla sceneggiatura di Alfredo Giannetti che focalizza l’attenzione sul lato umano dei personaggi e al taglio neorealista-intimistico che resta la migliore capacità stilistica di Germi, sia come regista che come attore. Il film nasce da un soggetto autobiografico intitolato Il treno di Alfredo Giannetti che lo adattò per il film insieme a Luciano Vincenzoni e Pietro Germi. La produzione de Il ferroviere era inizialmente della Ponti-De Laurentiis, ma il film venne realizzato dal solo Carlo Ponti che «non credeva nel progetto» e – anche per rallentarne la realizzazione – per la parte del protagonista propose nomi impossibili come quelli di Spencer Tracy e Broderick Crawford. Fu Giannetti a intuire che Germi avrebbe voluto e potuto interpretare il ruolo principale e fu lui a dirigerlo nei provini che convinsero Ponti. Con Pietro Germi, Sylva Koscina, Saro Urzì, Carlo Giuffrè, Amedeo Trilli.

Sinossi

Andrea Marcocci ha lavorato per tutta la vita nelle ferrovie, ma non ha mai fatto amicizia con i colleghi; in più i figli si dimostrano una delusione: il maschio infatti non vuole lavorare, mentre la ragazza continua ad avere relazioni extraconiugali. Andrea inizia a bere sempre di più fino a quando subisce un incidente ferroviario: in quel difficile frangente, i compagni di lavoro gli negano la solidarietà perché lui aveva lavorato durante uno sciopero.

Germi firma un melodramma che riprende la lezione del Neorealismo ma la reinventa in maniera molto personale e, limitando al minimo patetismi e facili soluzioni lacrimevoli, riesce a configurare un efficace spaccato sociale e umano. I drammi individuali si inseriscono in un contesto collettivo, contraddittorio e magmatico, dove scontri personali e di classe, miseria ed egoismi sono parte integrante di una società italiana che faticosamente ha superato gli strascichi del secondo dopoguerra e vede l’imminente boom economico come una meta ancora lontana da raggiungere. Il regista, inoltre, sa descrivere con arguzia e amaro disincanto la dissoluzione della famiglia tradizionale, lacerata da conflittualità latenti, incomprensioni, mal celato senso di inadeguatezza, incomunicabilità e sfiducia reciproca (Andrea, rimarca ogni volta che ne ha l’occasione, le differenze tra la sua generazione e quella dei figli i quali, a loro volta, si ribellano contro gli adulti che non riescono a comprenderli). Solo gli occhi ingenui di un bambino possono addolcire una realtà drammatica da cui si può evadere solo con un’illusione di felicità (si veda il prefinale) tanto intensa quanto effimera. Grande narratore e mirabile direttore d’attori (riservando per sé il ruolo principale, doppiato da Gualtiero De Angelis, voce italiana di Cary Grant e James Stewart), Germi sa conquistare con una storia popolare e dolente, refrattaria al bozzettismo e capace di emozionare fino alle lacrime con una semplicità e una sincerità davvero encomiabili. Prima collaborazione tra il regista e due dei suoi sceneggiatori di fiducia come Luciano Vincenzoni e Alfredo Giannetti. Memorabile la colonna sonora di Carlo Rustichelli.

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