Vizio di forma (Inherent Vice), un film del 2014 diretto da Paul Thomas Anderson, basato sull’omonimo romanzo del 2009 scritto da Thomas Pynchon.
È il settimo film di Paul Thomas Anderson e il primo adattamento di un libro di Pynchon. Il regista, che ha avuto occasione di paragonare il film a un’opera del duo comico Cheech & Chong, ha spiegato di aver anche considerato in passato l’adattamento di un altro romanzo dello scrittore, Vineland, e di aver tratto ispirazione per lo stile dai film Un bacio e una pistola, Il grande sonno e Il lungo addio, e, per le scene umoristiche, dalle opere del trio Zucker-Abrahams-Zucker. Il film presenta alcune differenze rispetto al romanzo. Tra queste, il personaggio di Sortilège acquisisce un valore diverso; Anderson, infatti, a differenza del libro, gli associa la voce narrante. Con la direzione della fotografia di Robert Elswit (che ha scelto come formato il 35 mm), le scenografie di David Crank, i costumi di Mark Bridges e le musiche di Jonny Greenwood, Vizio di forma è interpretato da Joaquin Phoenix, Benicio Del Toro, Reese Witherspoon, Owen Wilson, Jena Malone.
Sinossi
Larry Doc Sportello (Joaquin Phoenix) è un detective privato della Los Angeles del 1969. Dipendente dalle droghe e dai metodi insoliti, Sportello viene contattato da un’ex amante per risolvere un interessante caso che, tra miriadi di azioni criminali, riguarda un’infedeltà coniugale ma anche le istituzioni mentali e un gruppo di poliziotti chiamati Bigfoot.
Paul Thomas Anderson è un regista che ama le sfide e stavolta ne affronta una davvero coraggiosa: adattare un romanzo di Thomas Pynchon, massimo rappresentante del post-moderno nella letteratura americana contemporanea. La sceneggiatura firmata dallo stesso Anderson è complessa e stratificata e risente della lezione chandleriana che già aveva ispirato The long goodbye di Altman, vero nume tutelare dell’operazione, così come Short cuts era alla base di Magnolia; non è un film che si diverte a confondere lo spettatore in modo premeditato, però, almeno in certi passaggi, una maggiore chiarezza avrebbe giovato.
Pienamente riuscita la rievocazione degli anni Settanta, con una fotografia di Robert Elswit a tratti cupa e a tratti squillante; la narrazione in voce off della bella Sortilege è funzionale ad aggiungere tocchi di atmosfera pynchoniana, all’insegna del disincanto; i dialoghi sono fitti, talvolta disorientanti, ma ricchi di perle che appartengono al miglior repertorio andersoniano. L’evolversi della trama è convulso, disinibito, scosso da una serie continua di scarti, rotture, depistaggi: il racconto complesso fa da filtro a un contesto confusionario e delirante, quello della California di fine anni Sessanta, in cui tutto sembra poter succedere, tra deformazione surreale e richiamo alle piste investigative sempre traballanti eppure costantemente in gioco.
Ed è proprio l’emergere di questo contesto, più che la consequenzialità puramente narrativa, a fare la differenza: ciò che ne esce è una decostruzione in pieno stile postmoderno di un genere a metà tra il thriller e il noir. Probabilmente siamo almeno un gradino al di sotto di Magnolia, Il petroliere e anche The master, che non deve essere sottovalutato, ma resta un film umorale, ricco di folgorazioni, di brani affascinanti per virtù di stile. E quale altro regista del cinema odierno sa dirigere un cast del genere a questi livelli? Joaquin Phoenix è ancora una volta eccezionale nel ruolo del detective drogato e survoltato, con look appropriato, ma fra i caratteristi spiccano almeno un Josh Brolin, finalmente usato al meglio delle sue possibilità, l’affascinante newcomer Katherine Waterston, davvero incisiva nel ruolo di Shasta, e un Owen Wilson che rende bene il desiderio di redenzione del suo personaggio.
L’Academy non ha gradito neppure stavolta, ma resta un problema suo, e comunque sprofonda nel ridicolo quando concede l’ennesima nomination ad Anderson per il copione e poi lo fa battere da quello di The imitation game, inferiore da ogni punto di vista. Come si fa a non ricompensare un regista che rimane uno dei pochi ad osare ad ogni nuovo film?
Come si fa a non premiare una colonna sonora così suggestiva come quella di Johnny Greenwood, che già aveva scritto le musiche di There will be blood?, con corredo di hit dell’epoca mai invasive e sempre ben integrate alle immagini? Insomma, per essere un rompicapo alla Big sleep in versione Howard Hawks, come qualcuno lo ha definito, il bilancio è certamente onorevole.