Per essere un film di genere, The Nest – Il Nido annovera tra le sue caratteristiche un’originalità che lo porta in parte a distaccarsi dai codici e dai meccanismi dell’horror e del thriller. Potevate sviluppare la storia partendo dal contenuto della scena finale e fare di ciò che avete raccontato un semplice preambolo. Questo per dire che se la forma di The Nest si identifica con il genere di riferimento il suo sviluppo è tutt’altro che derivativo anche per quanto riguarda i meccanismi della tensione e della paura. Considerando che dovevate raccontare le conseguenze di un fatto senza rivelarne le cause, vi chiedo da dove siete partiti per scrivere il film?
Margherita Ferri: Ognuno di noi ha una risposta diversa perché ci siamo approcciati alla storia in tempi successivi. L’idea originale è di Roberto De Feo.
Lucio Besana: Roberto ha scritto un soggetto di mezza pagina che inizialmente aveva passato a me. Da quello ho ricavato un primo trattamento e la scaletta. Pronta quest’ultima, Margherita è subentrata in sceneggiatura.
MF: Sono intervenuta fin dalla prima stesura. Credo che la cosa difficile, ma anche la sfida per noi sceneggiatori, è stata quella di dover scrivere un film sapendo un’informazione fondamentale che il pubblico conoscerà solo alla fine. Quindi è stato come scrivere due film. The Nest – Il Nido può essere riletto e rivisto nel momento in cui si esce dal cinema, perché per novanta minuti lo spettatore lo percepisce in una modo, poi il finale glielo fa prospettare da un altro punto di vista. È come un’altra storia e, come dicevi tu, i personaggi si rivelano in realtà dopo l’ultima scena. Ho sempre pensato che fosse una narrazione destinata a rimanere dentro lo spettatore: le vere motivazioni, la psicologia, le indagini dei personaggi e come ognuno di loro reagisce durante il film li si comprende, li si assorbe dopo che il film è finito. Un effetto, questo, che fin dal principio faceva parte degli obiettivi da raggiungere attraverso la scrittura.
Per come avete impostato la conclusione, il finale aperto farebbe pensare a un possibile seguito. Sarebbe interessante perché, in realtà, The Nest si conclude con un nuovo inizio e lo spettatore esce dal cinema avendo voglia di sapere come continuerà la storia. Mentre scrivevate avevate in mente questa possibilità?
L.B.: Era un’intenzione di Roberto già nel soggetto iniziale, che corrisponde in tutto e per tutto al film che avete visto. In esso c’era una storia di reclusione tra una madre e un figlio con uno switch finale. La nostra sfida consisteva nel partire dalla peculiarità di quella conclusione e far funzionare tutto il resto. D’altronde, nel film c’erano tre o quattro generi che bisognava amalgamare in modo organico.
M.F.: Noi abbiamo iniziato a scrivere questo film avendo in mente principalmente un’idea, e cioè che si doveva per forza partire dal finale e poi tornare indietro.
In termini di scrittura e per far capire a chi legge, cos’è la prima cosa che metti sulla pagina scritta?
L.B.: La prima decisione che è stata presa a livello di scaletta, almeno quando l’ho presentata a Roberto, è stata quello di stabilire il punto di vista del film, perché in un lungometraggio come The Nest questo è centrale. Se ci pensi, l’efficacia del finale sta proprio nell’improvviso cambiamento del punto di vista, dunque bisognava concentrarsi bene su questo scarto.
M.F.: Infatti, il punto di vista del film è quello di Samuel, che peraltro coincide con quello dello spettatore. Un connubio, questo, che attraversa il racconto dal minuto uno al minuto cento. Per contro, esiste anche un’altra storia parallela a quella del protagonista che appartiene agli altri personaggi, i quali hanno informazioni che Samuel e il pubblico non conoscono, se non al termine dell’ultima scena.
L.B.: Di solito nel cinema classico il personaggio principale è quello che cresce in consapevolezza e prede coscienza della realtà. Al contrario, a Samuel questo non succede se non alla fine, per cui ci siamo trovati a scrivere un protagonista che tale non era.
M.F.: In realtà, la vera protagonista è la madre e la questione principale riguarda la volontà o meno della donna di lasciare andare il proprio figlio, di accettare il fatto che debba abbandonare il “nido” famigliare , sottraendosi alle sue eccessive attenzioni.
In questo senso siete d’accordo con il regista, perché la messinscena rispecchia questo assunto.
L.B.: Almeno in fase di scrittura possiamo dire che ci siamo capiti (ride, ndr).
M.F.: (ride, ndr) Meno male, sennò avremmo lavorato per così tanto tempo inutilmente.
Come vi siete incontrati e dal punto di vista pratico com’è stato organizzato il lavoro? Avete sviluppato il copione insieme o separatamente e, dunque, come si scrive un film a sei mani?
L.B.: Posso dirti come lavoro da sempre con Roberto e come abbiamo lavorato con Margherita. Roberto di solito mi presenta un soggetto che può essere di mezza pagina o di sette. Da quello sviluppo una scaletta per punti, ognuno dei quali numerati e poi Roberto una volta avutili può dire: “il punto ottantatré vorrei che fosse così “. Quando si arriva a una scaletta di massima si sviluppa la sceneggiatura.
M.F.: Questo non gli ha impedito di cambiarla centocinquanta volte (ride, ndr).
L.B.: Ha fatto grandi cambiamenti e per tantissime volte.
M.F.: Diciamo che poi all’interno del quadro che lui ti ha descritto abbiamo sempre parlato tanto; in questo caso su Skype, perché abitiamo in tre città diverse, e perché ognuno aveva il compito di scrivere determinate parti. Ci si riconfrontava anche per non perdere fondamentalmente la voce dei personaggi. Lucio è più ferrato sui meccanismi di genere, quindi si è occupato di far funzionare la struttura secondo le regole dell’horror e del thriller e in termini di suspance. Le parti in cui si doveva sviluppare i personaggi e metterli in relazione tra di loro, in special modo Samuel e Denise, le ho scritte più io.
L.B.: Se vogliamo descrivere in maniera molto analitica la suddivisione dei compiti, diciamo che io e Roberto abbiamo lavorato sulle parti che riguardavano in particolare Samuel e Elena, quindi sullo sviluppo del rapporto tra madre e figlio, attraverso le scene di paura e di tensione, mentre tutto quello che all’interno del film fa sorridere è merito di Margherita. Quando hai paura è colpa nostra (ride, ndr); lei è entrata soprattutto per lavorare nelle scene di Samuel e Denise, che poi è la sottotrama.
M.F.: Chiaramente, per quanto riguarda la tecnica di scrittura, lo sviluppo della storia, la sua struttura e le strade da prendere sono aspetti che abbiamo sempre discusso assieme.
Considerato che questa intervista inaugura una serie dedicate ai mestieri del cinema, volevo approfittare di voi per capire come si scrive un film in termini esclusivamente tecnici.
L.B.: Margherita per esempio è una che parla tanto; è un processo di scambio continuo.
M.F.: Si parla tantissimo e poi chiaramente a livello tecnico ognuno si tiene una parte. Alcune scene le ho scritte io, poi le ha riscritte lui.
Tra l’altro sono rimasto molto sorpreso quando – leggendo la scheda tecnica del film – ho trovato il nome di Margherita tra gli sceneggiatori. The Nest- Il Nido è infatti molto diverso da Zen – Sul ghiaccio sottile.
L.B.: Era importante avere qualcuno che non fosse assuefatto al genere e che non avesse mai fatto un film dell’orrore. Margherita ha costituito una voce nuova, capace di darci un sacco di spunti critici che hanno arricchito il film.
The Nest mostra l’ambivalenza dell’amore mettendo i personaggi nella condizione di sbagliare, ma lasciando sempre aperta alla possibilità che le loro azioni possano essere fatte a fin di bene, magari quali conseguenza di un amore perverso.
M.F.: È questo il dilemma del film e dei suoi personaggi. Ci si chiede fin dove può spingere l’amore, che cosa riesce a farti fare e soprattutto ce ne mostra la varietà delle tipologie. Quello tra madre e figlio è il cuore del film, ma poi ogni personaggio è legato all’amore e alla vita. The Nest è attraversato da un continuo confronto tra vita e morte, di cui ti rendi conto in maniera chiara solo alla fine, ma che percepisci lungo tutto lo sviluppo della storia.
L.B.: Il conflitto al centro del film è quello tra libertà e sicurezza. È uno scontro che non si può risolvere e che si morde la coda. Abbiamo cercato di non dare un giudizio di valore sui personaggi e sulle loro azioni, anche durante la scrittura.
M.F.: Si, mai. Ognuno ha le sue motivazioni e anche se in alcuni momenti del film possono sfuggire, nelle nostre intenzioni c’era la volontà di farle comprendere in fase conclusiva.
Infatti, secondo me, quello che dite è uno dei punti forti del film. Abituato agli archetipi del cinema di genere così come ai propri stereotipi, lo spettatore è spinto di riflesso a giudicare e, quindi, a incasellare i vari personaggi, senza però riuscire a farlo completamente per i motivi di cui si parlava sopra.
M.F.: È successo soprattutto con il personaggio di Elena, che abbiamo cambiato cento volte (ride, ndr). Sulla carta è lei l’antagonista del film, il mostro della situazione, però anche lei alla fine ha le sue motivazioni.
L.B.: Infatti, Elena è stato il personaggio che ci ha fatto lavorare di più degli altri.
Mi dicevate che avete cambiato molte volte il nome ai personaggi.
L.B.: È anche una questione produttiva, perché all’inizio il film era nato per essere tradotto in inglese e girato in America. La prima stesura che abbiamo scritto con Margherita l’avevamo fatta pensando a una traduzione in inglese, quindi anche i nomi erano anglosassoni.
M.F.: Alcuni sono rimasti internazionali anche nell’adattamento italiano, altri sono stati italianizzati.
M.F.: Denise si è sempre chiamata Denise.
Come mai il ruolo della madre vi ha impegnato di più?
L.B.: Perché bisognava prima di tutto depistare lo spettatore facendogli pensare che lei fosse una determinata persona per poi mostrarla come realmente è. Lavorare sul negativo di un personaggio, quindi lavorare in un certo senso sul suo contrario è comunque più complesso. Tutti e tre abbiamo scandagliato ogni rigo della sceneggiatura, scena per scena, per trovare le (possibili) sfumature che permettessero di suggerire questa ambiguità.
M.F.: E poi, soprattutto, in alcune stesure Elena risultava veramente troppo cattiva o, comunque, le sue azioni e il suo percorso erano troppo dark, troppo negative per poi riabilitarla nel finale. Questo è un equilibrio su cui è stato difficilissimo lavorare e di cui si può avere riscontro solo nel momenti in cui The Nest affronta il pubblico perché fondamentalmente questo è il punto interrogativo di tutto il film.
Il rigore del vostro lavoro consiste anche nell’aver rispettato l’assunto teorico che vi ha portato a rinunciare alla componente dinamica e spettacolare, tipica del genere in questione, a favore di una dimensione psicologica del terrore e della violenza. In questo senso, The Nest- Il Nido, tra le altre cose, mi è sembrato un film sui rapporti di forza, sulla dialettica tra vittime e carnefici. A livello visuale, i campi lunghi e le sequenze all’interno della casa riproducono le gerarchie vigenti nella comunità. Volevo chiedervi se nel modo di girare c’era questa intenzione, perché a me sembra che il rapporto tra primi piani e campi lunghi fosse la messinscena della distanza/vicinanza emotiva tra i personaggi. Ancora, nella seconda parte questa distanza viene spezzata dall’improvvisa presenza della luce del sole. Volevo capire come avete affrontato questi aspetti dal punto di vista della scrittura.
L.B.: La tensione del film si basa sui rapporti di forza. Hai paura di certi personaggi perché sai che hanno l’autorità o il potere di fare certe cose. Per quanto riguarda la messa in scena bisogna ringraziare Roberto perché ha capito benissimo come abbiamo scritto il film, mettendolo in scena nella migliore maniera possibile. Ho capito la potenza di determinate passaggi di scrittura solo dopo che Roberto li tradotti in immagini.
M.F.: Si, si, lui è riuscito a tradurre in immagini i rapporti di forza dei personaggi nonché la struttura gerarchica che fa funzionare Villa dei laghi, tutta la sceneggiatura e, in definitiva, tutto il film. Secondo me il passaggio dalla scrittura allo schermo è stato il più felice possibile. Anche perché Roberto si è trovato dentro la storia che aveva pensato e di cui conosceva l’immaginario. Questo l’ha aiutato nella resa finale.
L.B.: Di fatto ha aggiunto alla sceneggiatura altri livelli di lettura. Ero sbalordito nel vedere come la regia di Roberto fosse in grado di far uscire da ogni scena una grande quantità di sottintesi.
M.F.: Per questi motivi è un film che andrebbe visto più di una volta.
Io l’ho visto due volte.
M.F.: Una seconda visione ti permette di coglierne relazioni e sottigliezze visive. Sapere di aver scritto un film che può essere rivisto e goduto in modo diverso dalla prima volta è una bella soddisfazione.
L.B.: Se le nostre intenzioni si sono realizzate, alla seconda visione il film dovrebbe guadagnare anche una certa ironia.
A proposito di ironia, una delle scene più importanti è quella in cui ci sono i due lavoranti che si raccontano un aneddoto. Lo è dal punto di vista visivo perché è la prima ambientata in esterni e alla luce del sole, mentre fino ad allora il film si era svolto in interni poco illuminati. E poi perché, apparentemente leggera, la barzelletta è invece pregna di significati che riflettono sugli avvenimenti in corso.
M.F.: Anche questo lo si capisce bene con una visione successiva.
L’altra, invece, è quella in cui vediamo per la prima volta Elena in una mise diversa da quella rigida e monacale a cui ci aveva abituato. Nuda e distesa sul fondo della vasca da bagno, appare un’altra persona. Queste due scene come le avete pensate e poi scritte?
L.B.: A livello di scrittura entrambe appartengono quasi esclusivamente a Roberto.
M.F.: L’aneddoto a cui ti riferisci è del regista e secondo me funziona molto perché è una metafora che si rivela solo in un secondo momento, quello in cui il pubblico assiste all’ultima sequenza. Se vogliamo, ha un valore simbolico. Invece, secondo me, la scena della vasca da bagno è un lato intimo di Elena, che a livello di immagine è nato da una suggestione di Roberto sviluppata all’interno del film attraverso il progressivo lasciarsi andare della donna, causato da quello che sta succedendo dentro e fuori la Villa. A un certo punto, il castello che lei governa inizia a perdere dei pezzi. Elena e la Villa sono la stessa cosa, per cui lo spogliarsi testimonia su un altro piano il fatto che non c’è la fa più a tenerla insieme.
Ho pensato al rapporto tra l’ape regina e il suo nido.
M.F.: Lei rappresenta il centro del potere e nel momento che il figlio si ribella il suo modo di reagire è autolesionistico perché non ha alcuno con cui confidarsi. Elena è l’ultimo baluardo e quando tutto inizia a crollare noi vediamo la parte di lei che non pensavamo esistesse, perché l’abbiamo presentata come una donna inespugnabile.
L.B.: Per continuare il discorso fatto da Roberto intorno alla sceneggiatura, la nudità e il fatto che lei sia scarmigliata sono idee sue. Avevamo previsto una scena in cui si mostrasse la vulnerabilità di Elena, però sono le sue immagini che l’hanno resa così potente.
Le scenografie, la foggia dei vestiti e le mise dei capelli contribuiscono a comunicare personalità e stato d’animo dei personaggi: Samuel, per esempio, quando si sente finalmente libero insieme a Denise ha i capelli scomposti e senza la scriminatura invece presente nelle scene con la madre. Questi dettagli facevano parte della sceneggiatura o sono stati decisi sul set al momento delle riprese?
M.F.: Si, facevano parte del percorso di Samuel. Anche se parliamo di un film di genere, The Nest è comunque una storia di formazione. La struttura narrativa è quella tipica di un rito di passaggio in cui, come in Lost in Translation, si racconta la transizione da un’età all’altra. C’è quella della madre che deve rassegnarsi al fatto che suo figlio crescerà e dovrà avere una sua autonomia e una sua vita, e quella di Samuel, ansioso di trovare la propria libertà e autodeterminazione. Ovviamente, il tutto è declinato nelle forme del genere thriller e horror. La scena in cui Denise gli scompiglia i capelli è stata scritta proprio per raccontare – anche visivamente – il percorso di autonomia del personaggio.
Sempre a proposito del rapporto tra testo e immagine e parlando delle gerarchie vigenti all’interno della villa, mi è piaciuta la scelta di far assomigliare il dottore che fa da spalla a Elena a Hitler. La confermata arriva anche dal dettaglio sulla sfumatura posteriore dei capelli dell’uomo, simile a quella usata dal gerarca nazista. Questi particolari come li avete pensati?
L.B.: Sono arrivati istintivamente. Inizialmente il dottore era solo un alcolista poi, quando Roberto, a scaletta ultimata, chiese di inserire un cattivo nella villa, il personaggio assunse in maniera spontanea la personalità e le caratteristiche tipiche di un persona fredda e nordica, priva o quasi di empatia.
M.F.: Anche i tanti riferimenti al nazismo erano già presenti in scrittura. Ovviamente, le scene del dottore le scriveva Lucio (ride, ndr) perché io avevo troppa paura. Però le ho dovute leggere (ridono,ndr).
Accennavate al fatto che la distribuzione vi ha chiesto di accorciare il girato di trenta minuti.
M.F.: Per ragioni di budget alcune scene non sono state girate. Non c’è stata un’interferenza sul final cut ma solo sul fatto che alcune scene non sono rientrate nel piano di lavorazione, e quindi Roberto ha dovuto rimediare e ricostruire il finale. Cioè la conclusione della vicenda è la stessa, ma il percorso con cui ci si arrivava era strutturato in maniera diversa. C’era più action.
L.B.: C’era un confronto finale.
Di solito le produzioni in film di questo genere sono favorevoli e, anzi, spingono perché la vicenda sia più movimentata possibile. La ragione per cui questo non è successo è perché costava troppo?
L.B.: Il problema è che girare la sequenza che avevamo scritto avrebbe preso minimo due giorni, forse anche di più e due giorni non li avevamo.
Quindi un problema economico.
M.F.: Proprio di budget. Parliamo di un film a basso costo e, comunque, Roberto ha risolto più o meno tutti i problemi riuscendo a far funzionare la storia nonostante il poco tempo a disposizione per girare.
Quanto sono durate le riprese?
L.B.: Quattro settimane.
I dialoghi secondo me sono volutamente molto letterari, si confanno precisamente all’idea di non localizzare la storia. La vicenda ad un certo punto sembra nascere in un’atmosfera anglosassone, collocandosi in epoca passata. Poi, però, compaiono delle cuffie per ascoltare la musica e questo fa pensare a una storia ambientata ai giorni nostri.
M.F.: Si, quello è il primo turning point che ti dà delle coordinate temporali. Prima non ce ne sono. Almeno spero sia così (ride, ndr).
L.B.: Era una cosa voluta.
M.F.: Chiaramente voluta. Le cuffie danno un’indicazione di tempo che si colloca dopo l’invenzione dell’iPod, dunque successivamente gli anni duemila.
Il tempo è comunque sospeso.
M.F.:Anche questo era voluto. Dovendo costruire un mondo che fosse coerente con quello che si vede nella scena finale, ci siamo fatti delle domande che nel film non sono mai esplicite ma che però nel nostro modo di scrivere erano vincolanti. Come quelle riguardanti il sostentamento della villa e dei suoi abitanti.
L.B.: Domande relative a come si potessero procurare i vestiti e a cui abbiamo risposto immaginando che li producessero loro stessi, visto che non li vediamo mai uscire fuori dalla dimora.
M.F.: Oppure a come trovano la benzina o su come funziona la casa, in merito a cui facciamo vedere che arrivano della scorte dall’esterno. Ma, per esempio, anche al problema di cosa è possibile reperire e che tipologia di vestiti dovessero avere. Tutte queste domande sono nel film e lo rendono coerente a un mondo di cui lo spettatore non sa nulla.
L.B.: Per quanto riguarda la letterarietà dei dialoghi anche quella è stata pensata come un depistaggio temporale. Avevamo paura che fosse una scelta un po’ forzata.
M.F.: La voce di Elena è quella fondamentalmente più dura, più letteraria, più rigida, è in piena coerenza con il personaggio. I due ragazzini in realtà hanno un modo di esprimersi più contemporaneo.
È chiaro che quando uno si mette a scrivere un film come il vostro si rivolge spontaneamente a un immaginario cinematografico di riferimento. Qual era il vostro?
L.B.: Due film che avevo in testa, quando sviluppavo la scaletta, erano Mammy Dearest, con Joan Crawford che fa la mamma di Mia Farrow, e Che fine ha fatto baby Jane, dove c’è ancora Joan Crawford, che è stata il modello di cui mi sono servito per scrivere il personaggio di Elena. Roberto, invece, nei lunghi anni di scrittura della sceneggiatura tirava fuori spesso il film Dogtooth di Lanthimos.
M.F.: Per me, di sicuro The Others, per quell’atmosfera senza tempo, e poi The Village.
Parlando di meccanismi di genere, di cui fate un uso parsimonioso perché il vostro film diventa veramente qualcos’altro, volevo chiedervi se ne avete adottato qualcuno in particolare che avete poi riportato nella scrittura? E per finire, quante stesure avete fatto?
L.B.: Il meccanismo che dovevamo sempre tenere presente era che non dovessimo rivelare assolutamente nulla del finale ma, allo stesso tempo, preparare lo spettatore perché questo non sembrasse incollato a forza.
M.F.: Doveva essere verosimile, perché lo spettatore non ci mandasse a quel paese (ride,ndr), questa era la paura più grossa. Per riuscirci abbiamo dovuto lavorare sui personaggi, oltre a creare un mondo coerente con se stesso e con quello dell’immagine finale. Una delle domande che ci siamo fatti di più era relativa al finale e sul perché Samuel viene tenuto all’oscuro di ciò che c’è fuori dalla villa. Questa per me era la cosa più difficile di tutte perché è quella che tiene in piedi il film. Ogni personaggio, poi, doveva avere in sé una motivazione abbastanza forte per non rivelare questa informazione.
Il film è attraversato da una tensione molto forte ed alcune sequenze provocano davvero paura. Come si fa a provocare queste sensazioni mediante la scrittura?
L.B.: Mentre scrivevamo, la regola da seguire per spaventare il pubblico era quella che si preoccupasse per la sorte dei personaggi. Se ciò fosse successo allora la tensione sarebbe automaticamente salita anche laddove non c’era pericolo di morte. Dapprima abbiamo cercato di far identificare gli spettatori con Samuel e Denise, poi entrambi sono stati inseriti in un mondo di adulti, creando il sospetto – e lo abbiamo messo anche in scena – che potessero essere abusati in qualunque momento. Per me è quella la tensione del film.
M.F.: Si, appunto, alludere al fatto che il clima di violenza presente nella villa possa poi avere come vittime anche Samuel e Denise e la loro relazione. Per tutto il film ci sono in gioco pulsioni di vita e di morte che riguardano sia bambini che adulti.
L.B.: C’è un meccanismo molto efficace che siamo riusciti a creare, relativo al fatto che più i due ragazzini sono vicini e più sono a rischio. Questo fa sì che più sei contento per loro più temi per la loro incolumità.
M.F.: La cosa interessante è stato lavorare sulle motivazioni dei personaggi mettendole in relazione con il mondo che si vede alla conclusione del film.
Certo, rispetto al senso della fine.
M.F.: Si, comunque ogni abitante di questa villa è dovuto scendere a dei compromessi per attaccarsi alla vita oppure no. Prendi Ettore, il personaggio che accompagna Denise all’interno della casa: a un certo punto Samuel chiede a Elena “perché non viveva con noi” e lei: “perché lui faceva il dottore in posti meno fortunati “. Si allude al mondo esterno e al fatto che l’uomo non si sia voluto rinchiudere dentro Villa dei laghi e dentro il mondo di Elena. Quindi, ogni personaggio ha fatto una precisa scelta e un preciso compromesso tra la vita e la morte o tra la sopravvivenza e una vita vera. Che poi è il tema messo in scena tra Elena e Riccardo, il padre di Samuel nel momento in cui insieme alla donna devono decidere il futuro del loro figlio. Quel flashback spiega il dilemma iniziale, e dunque da dove nasce la storia. Esiste la possibilità di andare a cercare un mondo migliore, ma non si conosce cosa si troverà. In alternativa c’è l’opzione di costruirne uno ex novo che però è un po’ una bugia.
L.B.: Ci apriamo e ci mettiamo a rischio o ci chiudiamo e ci proteggiamo. Questo è il dilemma.
Quanto ci avete messo a scrivere la sceneggiatura? E – chiedo a Margherita – la stesura è avvenuta prima di Zen – sul ghiaccio sottile?
M.F.: Contemporaneamente. La ricerca della casa di produzione e la ricerca fondi sono durate cinque anni. La prima stesura è del 2014.
L.B.: Abbiamo iniziato a scrivere la scaletta nel 2013 e lei è subentrata sei mesi dopo da quando quest’ultima era pronta. La sceneggiatura l’abbiamo scritta insieme nel 2014, poi abbiamo passato il grosso del 2016 e del 2017 riscrivendola. Ci abbiamo impiegato nove, dieci mesi per arrivare a una stesura.
M.F.: Poi c’è stata una terza stesura e, infine, l’ultima, comprensiva delle richieste di produttori e distributori.
L.B.: Possiamo dire che non abbiamo smesso di riscriverla fino alla fine delle riprese.
M.F.: Tu sei andato anche sul set a riscrivere.
L.B.: Si, mi beccavo le telefonate di Roberto che diceva: “dobbiamo ridurre la sceneggiatura di dieci pagine” (ride,ndr).
M.F.: Una bella fotografia o una bella regia non possono salvare una brutta storia, mentre a parte invertite è possibile che succeda.