Dopo due anni da La casa sul mare, il regista francese Robert Guédiguian torna al Festival di Venezia con il suo ultimo film, Gloria Mundi (che noi recuperiamo volentieri grazie a Le vie del cinema), e i suoi attori di sempre, la moglie Arianne Ascaride e gli amici: Jean-Pierre Darroussin e Gerard Meylan. Sono quelli che, a detta del regista, volevano fare la rivoluzione e invece hanno fatto il cinema, e che noi seguiamo da sempre con affetto, nel riconoscere e apprezzare la loro coerenza, oltre alla bravura, indiscutibile. Quest’anno ad Arianne Ascaride è stata assegnata la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile e ne siamo contenti.
Ma dopo l’incipit gioioso del film (è nata una bambina, Gloria) comincia ben presto a mancarci qualcosa. Intanto la Marsiglia a cui Guédiguian ci ha abituati, che è quella del quartiere L’Estaque, con i suoi vicoli e le sue discese a mare, i rumori i colori le luci, e la vivacità che ne Le nevi del Kilimangiaro (1017) si fanno quasi protagonisti. Ben presto capiamo che sono stati sostituiti dagli odori dei tubi di scappamento, da orrende sopraelevate di traffico convulso, da un mare che si vede solo perché lì sono attraccate le navi dove Sylvie (Arianne Ascaride) passa le notti a pulire le cabine. Nove minuti ciascuna, bagno compreso. Le mancano tre anni alla pensione e solo così riesce a reggere un ritmo che le spacca la schiena e che ha trasformato il suo ménage matrimoniale in un’assurdità. Come nel racconto L’avventura di due sposi di Italo Calvino, riesce a vedere il marito Richard (Jean-Pierre Darroussin) per poco tempo, quando al mattino, stravolta dal lavoro notturno, lo sveglia con il caffè prima che vada lui a lavorare, di giorno.
“Non avrei mai voluto vivere come voi, e invece oggi chissà cosa darei“, dice Daniel (Gérard Meylan), il primo marito di Sylvie, appena uscito di prigione. È lui il personaggio chiave di tutta la vicenda, un brav’uomo invecchiato in carcere, che ha imparato a scrivere haiku per farsi compagnia e dare senso ai giorni, e ora si è avvicinato a loro dopo la nascita di Gloria, nipote di Sylvie e Richard, di cui Daniel è il nonno vero. Nella relazione tra i tre, sì, che ritroviamo la tenerezza di Guédiguian, la fede in rapporti familiari anche fuori dalla tradizione, il rispetto per i sentimenti e la vera magia del quotidiano. La stessa generosità che ci ha commosso nei suoi due ultimi film, in cui l’incontro con bambini bisognosi (sia ne Le nevi del Kilimangiaro che ne La casa sul mare) faceva superare gli egoismi quotidiani, aprendo il cuore dei personaggi, ampliando il significato delle loro esistenze. Richard e Daniel si rispettano profondamente, Sylvie vuole bene, in modo diverso, a entrambi e tutti e tre aiutano Mathilda (Anaïs Demoustier), figlia di Daniel, ma cresciuta con Richard, a gestire la piccola Gloria. Al di là e al di sopra dei legami di sangue, come dichiara Richard in uno dei momenti di intesa con Daniel.
Eppure, facciamo fatica a ritrovare i temi e il tocco del regista di sempre, perché la vita delle figlie (insieme a Mathilda, la sorellastra Aurore – Lola Naymark) è la perfetta negazione dell’esempio genitoriale, quello di una vita umile vissuta dignitosamente. Fallite tutte e due nel loro rapporto con il denaro (la prima per una situazione lavorativa svilente, la seconda per un cinismo insopportabile coltivato insieme al marito) rappresentano tutti i fallimenti, esasperati, del sistema economico di oggi. La sfortuna si accanisce su Mathilda e il marito (un castigo fuori misura), mentre Aurore si crede vincente nello squallore del suo negozio di paccottiglia usata, che compra sfruttando la disperazione di chi gliela vende. Pessimo rapporto tra le sorelle, di rivalse e rivincite, come non se ne vedeva nel cinema e nella letteratura, da un bel po’ di tempo.
Un quadro così desolante da Guédiguian non ce lo saremmo aspettato. Fatto di tradimenti e inganni, e di una discesa agli inferi senza possibilità di riscatto. Lui ce lo rende con la precisione della letteratura francese dell’Ottocento, uno sguardo realista, sperimentale, alla Zola, e noi ancora lì ad attendere la leggerezza che gli conosciamo e che non arriva. Potremmo volergliene, se non fosse che siamo costretti a condividere, tutto o in parte, il suo radicale nuovo pessimismo e le sue dichiarazioni alla presentazione del film:: “Parafrasando Marx: ovunque regni, il neocapitalismo ha schiacciato relazioni fraterne, amichevoli e solidali, e non ha lasciato altro legame tra le persone, se non il freddo interesse e il denaro, annegando tutti i nostri sogni nelle gelide acque del calcolo egoistico. Ecco cosa vuole dimostrare questo crudele racconto sociale attraverso la storia di una famiglia ricostituita, fragile come un castello di carte. Ho sempre pensato che il cinema dovrebbe commuoverci, a volte donandoci un esempio del mondo come potrebbe essere, altre volte mostrandoci il mondo così com’è. In breve, abbiamo bisogno sia di commedie sia di tragedie per continuare a mettere in discussione il nostro stile di vita. E dobbiamo continuare a interrogarci più che mai in questi tempi difficili, per non soccombere all’illusione che ci sia qualcosa di naturale nelle società in cui viviamo“.
Robert Guédiguian è riconoscibile per l’impegno sociale, ma lo sottrae ai suoi personaggi (Sylvie non può permettersi di scioperare). Figlie e generi, poi, non l’hanno mai conosciuto. Quanto sono peggiorati rispetto a quelli de Le nevi del Kilimangiaro di otto anni fa! Allora non erano d’accordo con le scelte solidali dei genitori, ma la loro riconquistata serenità era troppo evidente per non convincerli. Ora sono incattiviti, in una guerra tra poveri che dice addio alla commedia, e sposa un andamento tragico per quasi tutta la narrazione. Noi però aspettiamo pazienti che il regista francese ritrovi la sua ironia, il suo sorriso malinconico, lo sguardo benevolo sulle persone e sulle cose del mondo, le sue lezioni morali che si insinuano piacevolmente tra i pranzi in famiglia, le piccole battute, le complicità tra persone che si amano. Abbiamo bisogno di uscire dal cinema con la sensazione di una carezza al cuore e non di questa amarezza che non se ne vuole andare.