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Soundscreen Film Festival: Woodstock – Three Days of Peace & Music

Al Soundscreen Film Festivale si torna agli anni ’60 con il documentario Woodstock: Three Days of Peace & Music

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Alla terza giornata del Soundscreen Film Festival abbiamo fatto un vero salto nel passato grazie al documentario sulle tre giornate epocali di Woodstock. Il rockumentary di Michael Wadleigh si rivelò ai tempi una grandissima intuizione non solo visiva, ma anche di format cinematografico. Le riprese, durate per tre giorni e seguite da quasi un anno e mezzo di montaggio, fecero del film una vera impresa titanica.

Mezzo milione di giovani si riunirono nell’Agosto 1969 intorno alla fattoria di Max Yosgur, a 80 km da Woodstock (New York), per un concerto di 16 ore di musica rock, folk e pop che divenne una celebrazione della pace, delle droghe e dell’amore libero. Il film segue i ritmi del concerto in cui alle numerose performance musicali si alternano, grazie anche all’impiego di split-screen, scena di vita quotidiana girate da numerosi operatori tra cui anche Lewis Teague. Grazie a un montaggio efficacie, cui partecipò anche Martin Scorsese, Woodstock: Three Days of Peace & Music, diventa una sapiente cronaca audiovisiva capace di rendere la tangibilità dello stesso concerto. Vincitore dell’Oscar come miglior documentario, nel 1994 ne fu fatta poi una versione di 206 minuti ripulita a livello sonoro (Woodstock-The Director’s Cut), tramite tecniche digitali, dando maggiore spazio alla musica di: Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, ma ci sono anche Joan Baez, Richie Havens, Crosby Stills and Nash, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Sly and the Family Stone, Ten Years After, Carlos Santana, The Who, Jimi Hendrix, Arlo Guthrie, John Sebastian, Sha-Na-Na, Canned Heat, Country Joe and the Fish.

Il film si distacca così dall’essere una semplice ripresa in diretta dell’evento, andando ben oltre il film di genere musicale. Le immagini assumono la volontà di essere una base solida per una rievocazione del concerto che definì una generazione consentendogli così un’esistenza andata ben oltre gli stessi anni: se da un lato ne accorda il riconoscimento a quelle generazione degli anni ’60, dall’altro lato permette alle generazione post-Woodstock di capirne l’essenza e l’origine di tutta quella controcultura. Nessuno, ai tempi, avrebbe immaginato una portata del genere e una vera fiumana di gente che per tre giorni visse di musica, acidi, fango, pioggia, balli e canti: fino a farne una “zona disastrata”. Uomini e donne che attraverso la musica chiedevano una direzione verso la quale andare, con la voglia di ottenere un presente diverso da quello della guerra e dell’odio per il nemico: all’insegna della pace e dell’amore; in una dimensione molto hippie si cerca e si ottiene un cambiamento e una la volontà di emancipazione dalla generazione precedente.

Il regista riprende quella che era l’atmosfera di Woodstock: il prima contenente il profondo slogan contro la guerra in Vietnam, il durante del Festival di Woodstock, narrato con le esibizioni di tutti gli artisti, e il dopo tra fanghiglia e immondizia. Un’esperienza irripetibile e unica che segnerà una cesura netta, storicamente significativa, per le epoche successive e per quella in cui viviamo. I metodi di ripresa sono fra i più vari e diventa perfettamente comprensibile l’assistere ai diversi formati, all’aspetto-ratio e a differenti qualità. Tantissimi sono i momenti in cui il formato si riduce, come si nota nei numerosi split-screen che diventano ora doppi ora tripli, ma nonostante i minuti in cui la grana di pellicola cambia, così come anche i cromatismi quello che si percepisce, durante il lunghissimo documentario, è la costante fedeltà e rigore nei confronti dell’evento.

Woodstock: Three Days of Peace & Music è un film interamente sonoro: procede e si alimenta di pause musicali. Le rare conversazioni, critiche e dialoghi, più o meno obiettivi, risultano essere solo un contorno, diventando vere e proprie comparse temporanee. L’importante per il film è la musica, ecco quindi che la visione si fa così assuefatta al suono, si ha quasi la sensazione di non vedere, ma solo di ascolto: un paradosso per la nostra generazione fatta più di immagini che suono. L’emozione che rimane è quella di aver partecipato, anche se a distanza di anni, ai tre giorni che cambiarono un’epoca, e anche se si percepisce un velo di malinconia e distanza rispetto all’atmosfera che si poteva vivere; quello che perdura e la straordinaria capacità comunicativa della musica in grado di travalicare il tempo.

Alessia Ronge

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