Vero protagonista, durante la seconda giornata del SOUNDSCREEN FILM FESTIVAL, è stato il regista italo-americano Abel Ferrara nonché ospite d’onore di questa edizione. Firmato dallo stesso Ferrara Go Go Tales (2017), presentato fuori concorso, racconta le vicende del Paradise un locale di lap-dance in rovina. Intorno a lui tantissime storie di e prima fra tutti quella di Ray (Williem Dafoe), il proprietario che, tra un ciondolare e un altro, attende speranzoso che i propri sogni si potranno realizzare. Fra atmosfere cupe e claustrofobiche, con una fotografia che illumina i corpi grazie a fasci di luce ora calda ora fredda, si crea una sensazione cromatica visiva unica. Il film si avvale di manovalanza italiana, come lo stesso Ferrara ha voluto più volte precisare nel corso del Q&A con il pubblico. Il film, infatti, è stato girato completamente a Cinecittà e vanta un cast di tecnici e attori nostrani come Asia Argento, Riccardo Scamarcio e Stefania Rocca.
Go Go Tales vorrebbe raccontare trame, ma purtroppo le aspettative vengono tradite; ecco, quindi, che ci sono storie che si insinuano l’una nell’altra in una sceneggiatura lineare che crea un vuoto disarmante fra i vari attanti. Il film si riempie così di anime, alcune fra l’altro nemmeno ben delineate, che parlano di situazioni banali e surreali, non permettendo una direzione precisa alla narrazione stessa. Perdendo quasi la speranza, lo spettatore attende che qualcosa accada, fino a quando Ray Ruby (alter ego di Ferrara) guarda in macchina e parla dicendoci che cosa significhi per lui il Paradise; non un locale per fare soldi, ma un sogno: una dichiarazione poetica verso il fare spettacolo e di conseguenza verso il cinema. Go Go Tales non si distingue certo come opera di grande spessore, anzi talvolta annoia e scade nell’apatia pura, ma quello che si percepisce e la voglia di raccontare un mondo notturno e sotterraneo dove vigono delle regole surreali o comunque molto distanti dalla realtà (si pensi alle ragazze che possono essere guardate, ma non toccate).
Ferrara crea così un mondo reale, ma profondamente cinematografico, quindi (ir)reale, in cui le dinamiche sono guidate dal profitto, ma anche da valori quali amicizia e fiducia. Metafora del mondo contemporaneo, rimasto privo di sognatori, sono le parole conclusive del protagonista che forniscono nuova luce solo in apparenza visto che la vincita al lotto andrà per metà in tasse. Go Go Tales indaga ora il noir, ora la commedia, o piuttosto quel dramma nascosto in quest’ultima, in cui Il Paradiso diventa uno strip-club e le ferite interiori si rimarginano innanzi alla logica economica, dove l’unica cosa che conta è l’apparenza. In un cabaret in cui si affastellano corpi e gag al limite del grottesco, si finisce per rincorrere un pubblico in strada o per farsi vedere vendersi (la sequenza in cui Stefania Rocca vende la sua sceneggiatura); in un teatrino di marionette si ritagliano spazi temporali per mostrare la propria anima e il proprio sogno. Passioni dilettantesche, sogni perduti e/o infranti compongono Go Go Tales, nel quale la vera linfa vitale è il rapporto osmotico di personaggi e ambienti. Go Go Tales sembra trovare senso in una dimensione privata dello stesso regista, diventando quasi un ragionare autoironico fra cineasta e commerciante, fra uomo fatto di sogni e uomo del profitto.
La serata prosegue con La Coquille et le clergyman di Germaine Dulac del 1928, fra i più grandi film di avanguardia del muto. La pellicola racconta di un prete ossessionato dalla moglie di un generale, il quale ha strane visioni di morte e lussuria. A musicarlo dal vivo e, già alla loro seconda presenza al festival, sono stati I KyoKyoKyo, un trio bolognese composto da Bob Nowhere (chitarra, synth), Carlo Marrone (chitarra, drum machine, tastiere) e Laura Agnusdei (elettronica, sax). Considerato come il primo film surrealista della storia, segna una netta cesura con le altre arti in quanto tali, verso una dimensione cinematografica pura e priva di ogni legame con una qualche narrazione. Nonostante lo scandalo che creò ai tempi e le diatribe artistiche fra lo stesso Dulac e il grande nome del teatro Artaud, il film rimane un esempio cinematografico di pura immagine. Un mix unico fra sovraimpressioni, giustapposizioni di immagini e hyper-slowmotion permette una rievocazione di tutti quei temi cari al surrealismo, quali le norme imposte dalla società, la chiesa e la dimensione dell’onirico. Le musiche dal vivo dei KyoKyoKyo, capaci di creare sonorità destabilizzanti e ipnotiche, con un mix fra rock e noise, hanno trasportato il pubblico verso la dimensione astratta proposta sullo schermo, creando una sinergia sonora-visiva perturbante e affascinante.
La serata a Ravenna si è conclusa con grosse risate in sala, grazie al film Hevy Trip. Già presentato all’ultima edizione del Torino Film Festival, nella sezione Afer Hours, racconta di un gruppo di giovani metallari finlandesi, con i capelli lunghissimi, alla ricerca del successo. Quello che emerge dalla caricatura che ne fanno i due registi, Laatio e Vidgren, è la ferma consapevolezza che la figura del metallaro sia fondamentalmente un disadattato della società, innocuo e sognatore che vorrebbe vivere nel proprio mondo di riff, urla e, perché no, anche in una dimensione necrofila. Ben lontano quindi dai classici stereotipi del metallaro, Heavy Trip ci riporta dentro alle atmosfere surreali del profondo nord. Il film è interamente basato su un umorismo senza pretese, semplice, surreale e creativo; ingredienti di una dimensione diegetica dove tutto è possibile: dall’incrociare una nave vichinga a un delirante “esercito” di frontiera. In un paesino sperduto in cui tutto scorre lento (forse anche troppo) tant’è non si ha nemmeno la percezione del movimento stesso, la parola d’ordine è il ridicolo, il tutto è giocato sui codici dell’ambiente metal e dei tour musicali. Nella prima parte il ritmo procede a fatica e le gag non si dimostrano particolarmente brillanti cadendo o scadendo spesso nel puro demenziale, verso più di metà visione si mette, finalmente, la quarta e il film inizia a “ingranare”. Trasformandosi così in un bizzarro racconto di un’immaturità senza fine, di una generazione che non riesce a rivendicare la propria diversità, in un mondo dove i vincenti sono coloro che decidano; ecco che il film, anche se molto in ritardo, riesce nel suo intento a liberarsi tra riff e battute di batteria.
Alessia Ronge