Le quattro giornate di Napoli, un film drammatico del 1962 diretto da Nanni Loy con Gian Maria Volonté.
Il film, ispirato al libro di Aldo De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli del 1956, fu prodotto da Goffredo Lombardo e fu candidato all’Oscar nel 1962 come miglior film straniero e per la sceneggiatura.
Il film è dedicato all’undicenne Medaglia d’oro al valor militare Gennaro Capuozzo; all’uscita provocò polemiche in Italia e Germania che coinvolsero tra l’altro anche l’allora ambasciatore tedesco in Italia Manfred Klaiber.
Il film vinse tre Nastri d’Argento nel 1963 (Regista del miglior film a Nanni Loy, Migliore sceneggiatura a Carlo Bernari, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Nanni Loy, Migliore attrice non protagonista a Regina Bianchi). Con Gian Maria Volonté, Lea Massari, Georges Wilson, Aldo Giuffré, Regina Bianchi, Enzo Cannavale, Pupella Maggio, Frank Wolff, Raf Vallone.
Sinossi
Il film narra l’umile ed eroica epopea della cittadinanza napoletana che, senza capi e senza tattiche preordinate, si trova unita nel settembre del ’43 a combattere una battaglia improvvisata. Nonostante un armamento “ridicolo” e rudimentale, grazie al coraggio dei ragazzini del riformatorio e degli anziani e al coinvolgimento delle donne, gli insorti riescono a liberare la città dai nazisti, prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Realizzato in quella particolare stagione del cinema italiano in cui si rielaborava l’esperienza bellica dopo l’assordante silenzio degli anni Cinquanta (qualche titolo: La grande guerra, Il generale Della Rovere, Tutti a casa, La ciociara, La lunga notte del ’43, Un giorno da leoni, Il federale), Le quattro giornate di Napoli è il film più bello ed importante di Nanni Loy. Rapsodico affresco civile consacrato al popolo napoletano, è una straordinaria tragedia popolare che contamina i codici drammatici della sceneggiata (le masse che gesticolano e si strappano i capelli: per tutti l’esaltante espressività di Pupella Maggio) con elementi quasi brechtiani (il pezzo di bravura della gigantesca Regina Bianchi), lo stile secco e quasi cronachistico delle parti più storiche (lo spaesamento del capitano di Gian Maria Volontè) e il pathos straziante delle scene madri (il bambino che cade sotto le bombe è Gennarino Capuozzo, a cui il film è dedicato). Scritto con lucidissima cognizione di causa da un team eterogeneo (accanto a Loy, due scrittori, l’antifascista partenopeo Carlo Bernari e il genuino e malinconico Vasco Pratolini; in più la coppia, allora in gran forma, formata da Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa), è un film in cui ognuno dà il proprio contributo con sincerità e potenza (per dire: la fotografia struggente di Marcello Gatti, la musica accorata di Carlo Rustichelli, il montaggio ritmato di Ruggero Mastroianni) e che appartiene moltissimo anche a Goffredo Lombardo e alla sua migliore ideologia produttiva (cinema popolare d’altissimo profilo d’autore). Recitato in maniera anonima in omaggio alla popolazione, candidato all’Oscar per il film straniero nel 1963 e per la sceneggiatura originale nell’anno successivo (i complicati meccanismi dell’Academy), è un film figlio del suo tempo e autenticamente universale.