Difficile vedere un film più brutto e violento di questa spietata pellicola che, oltre a essere sgradevole per la sua eccessiva e gratuita violenza, non corrisponde affatto alla figura e a quel personaggio che, per molti di noi, era un mito dell’infanzia. Giovani e vecchi hanno amato e amano il nostro Rambo, il cui nome è diventato un toponimo di forza nella sua accezione più positiva. Rambo è il protettore dei buoni, è colui che incarna da solo tutti i “nostri” che, da che mondo e mondo e da che cinema è cinema, hanno fatto innamorare milioni di persone del cinema d’avventura e dei suoi eroi. È il primo supereroe che, senza i superpoteri, vince sempre e vince tutti. Qui invece di eroico c’è molto poco.
La storia si snoda all’inizio come una saga familiare. John Rambo si è ritirato in Arizona dove vive con la domestica e amica Maria e con la nipote Gabrielle, entrambe di origini messicane. L’ambiente è quello di una casa di campagna molto spartana e degli spazi dilatati delle terre americane vicino al confine messicano. L’attore sembra in buona forma e credibile nel suo ruolo di zio di una giovane nipote a rischio, ma dopo poco le cose cambiano: la nipote va alla ricerca del padre naturale in Messico e si apre una storia amara e senza speranza. Il film, che sembrava porsi come problematico il tema dell’adolescenza tormentata e ribelle, cambia registro. Da quello che poteva sembrare un film per famiglie si passa a ben altro e, in un crescendo di violenze, la storia si conclude con il più bieco e squallido orrore. Ma non un orrore fatto di suspense, come nei classici di quel genere, ma un orrore oggettivo che, per la sua reiterata e scientifica ripetizione di moduli, finisce quasi per diventare tragicomico.
E non è certo il caso di trovare giustificazioni a questa incredibile débâcle del personaggio, delle sue caratteristiche e della storia, cercando ragioni nel budget, a quanto risulta abbastanza limitato, del film. Sul girato, infatti, e sullo stile della regia, dal punto di vista del linguaggio visivo, della fotografia e della musica non c’è niente da eccepire. Ci voleva poco a creare una sceneggiatura adeguata e aderente alla figura di Rambo e mantenerne intatta l’immagine, riconsegnando una nuova e conclusiva puntata alla serie. A questo modo intelligente di operare su un sequel appartiene invece l’ultimo film di una famosa una serie; si tratta di Fast & Furious – Hobbs & Shaw, che abbiamo visto quest’estate e che, pur nell’intelligente e adeguata crescita nel tempo delle storie e dei personaggi, risulta bello, interessante e avvincente come i primi del genere.
Qui le cose sono molto diverse. Miopia del regista? Incapacità di Stallone analizzare la sceneggiatura? Sta di fatto che quello che abbiamo visto è brutto e assurdo. L’apologia della vendetta, come metodo di risoluzione dei problemi, è la chiave di volta del film, che è l’apoteosi della diseducazione morale, tra l’altro lontana mille miglia dalle nuove istanze che da tutto il mondo si pongono contro la violenza in generale e il bullismo dei giovani. Se e vero che le precedenti serie erano, come molte altre produzioni, non prive di violenza, in questo caso si arriva allo splatter più stupido e incontrollato. Le produzioni, violente ma spesso geniali, di Tarantino appaiono in confronto generate e create da una tenera mammoletta. Tecnicamente anche i personaggi non sono affatto delineati nei caratteri; sono come dei pupazzi le cui azioni non hanno vere giustificazioni nella storia. Dagli antagonisti messicani trafficanti di ragazze al padre di Gabrielle, che rifiuta senza un vero motivo la figlia, tutti sono come dei manichini senza tridimensionalità. Non c’è salvezza per il nostro ex eroe che, ormai stanco, forse moribondo, consegna al pubblico delle parole conclusive, solo pensate, anch’esse prive di qualunque appeal. Peccato davvero, perché poteva essere una bella occasione per Stallone che può ancora dare molto al cinema e al pubblico che lo ha amato.