“Io ricordo tutto. Questo è il mio fardello”, commenta a voce bassa, assorta, Eleanor/Ronan di fronte al suo giovane interlocutore, Frank/Landry Jones, che tenta di aprire timide brecce in un riserbo che appare inscalfibile, protetto com’è da un segreto secolare sconvolgente. E proprio il ricordo, malinconico, a volte struggente, assieme a una delle sue architravi maggiori – la nostalgia – e in parallelo ai furori del desidero e alle incognite del tempo, percorre, al modo delle pagine di diario redatte con febbrile mestizia dalla stessa Eleanor, “Byzantium“, penultimo lavoro di Jordan – datato 2012 – successivo all’incursione nella tradizione gaelica di “Ondine” (2009).
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Se, come ha notato anche Houellebecq, “la nostalgia non è un sentimento estetico, e non è neanche legata al ricordo di una felicità. Si ha nostalgia di un luogo per il semplice fatto di averci vissuto, poco importa se bene o male“, allora è pensabile ipotizzare, una volta operata accorta torsione del contesto – nel caso, fantastico-horrorifico, imperniato sulle vicende di due donne vampiro, essendo l’altra Clara/Arterton – una ulteriore sfumatura drammatica di questo concetto legata al destino privilegiato ma crudele dei cosiddetti non-morti, inchiodati tra noi in una sorta di infinita adolescenza e prima giovinezza, inerente lo smacco di un sentimento per terre mai viste, per esistenze alternative, proprio per questo in teoria in grado di spezzare i vincoli di una eternità esuberante ma coatta: Bisanzio, appunto, ipotesi evocativa quante altre mai di un’idea di approdo ove consumarsi in via definitiva o rinascere, qui provvisoriamente materializzata nelle architetture fatiscenti di un omonimo Hotel affacciato su un mare non meno cupo del cielo che lo sovrasta.
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La parabola viziosa di Eleanor e Clara, vincolata nel cerchio di istanti che sembrano trascorrere ma in realtà si limitano ad allungare gli estremi di una decrepitezza i cui tratti esteriori restano sempre e comunque gentili e floridi, si nutre, per un verso, dei canoni e delle convenzioni tipiche del genere che, come si sa, ha precedenti letterari e cinematografici – addentellati inclusi – pressoché incalcolabili, arricchita inoltre, qua e là, di un gusto ematico-sessuale diretto, quasi innocente, nella sua prorompente inesorabilità: ingordo e impetuoso quello di Clara, al passo con l’uso di un corpo sodo e desiderabile, espediente infallibile e fonte inesauribile di sostentamento; più tormentato, sul cammino appena abbozzato di una impossibile sublimazione, come punteggiato da alterni sensi di colpa o dubbiose ritrosie, quello di Eleanor. D’altro canto, l’approccio di Jordan si astiene, pressoché del tutto, da una raffigurazione saccente o trionfante del personaggio-vampiro, optando per un intimismo di fondo spossato, quasi sine nobilitate, in ogni caso privo di echi dandy o della tetra grandeur spesso consustanziale a questo spicchio di immaginario e da Jordan stesso raccontata un quarto di secolo fa in “Intervista col vampiro”. Clara ed Eleanor – tanto la Arterton è a suo agio nel disporre, grazie a un erotismo intraprendente, delle miserie umane, al punto da eliminarle quando si frappongono sulla via dell’autoconservazione; tanto la Ronan, di continuo in bilico tra incredulità, flebile fiducia e afflizione, tratteggia Eleanor come una creatura scissa tra un metabolismo dannato che pretende l’appetito famelico del sangue e un animo che invoca la quiete o, quantomeno, la condivisione di un destino impietoso – attraversano insieme lo spazio e i giorni fissando dimora dove capita (in genere tra i resti degradati di una modernità la cui desolazione è pari solo alla sua presunta – in ogni caso, gelida – funzionalità), litigando, nutrendosi, forzando la fatale indole entro i contorni di una fragile stabilità, sfuggendo le insidie di persecuzioni arcane e remote, divise tra determinazione a resistere e anelito a una tregua, mentre attorno a loro si svolge l’ennesima versione di un mondo inospitale tante volte già incontrato, giunto oggi ad accomunare nell’eterno presente – sebbene su piani diversi, eppure, paradossalmente, non così distanti – vampiri e uomini, entrambi ormai del tutto impossibilitati a fare tesoro delle parole già disincantate di Yeats: Appena libero dalla natura/mai più assumerò la mia forma corporea da una qualsiasi cosa naturale/Ma piuttosto una forma come quella che gli orefici traggono dall’oro…/A cantare ai signori e alle dame di Bisanzio/Di ciò che è passato, di ciò che sta passando o che verrà.
Alessandro D’Orazio