Brillante Mendoza è il tuo mentore oltreché il produttore di Verdict. Volevo capire in che modo collaborate e cosa ritieni di aver preso dal suo cinema.
È iniziato tutto quando avevo circa vent’anni e frequentavo i suoi laboratori cinematografici. Dopo aver vinto il premio come miglior studente dei workshop, mi ero proposto di proseguire il mio cammino del mondo del cinema, ma Brillante mi disse che per poter emergere avrei dovuto innanzitutto imparare in che modo scrivere. Mi presentò quindi il suo mentore, Armando Binlagus. Lui è uno sceneggiatore e ha una storia importante anche come regista. È la mia guida, la nostra guida. Il mio cinema rappresenta la vita reale, così come si svolge nella nostra società. Sicuramente non vedo nessuna differenza dai film di Brillante, voglio continuare ciò che lui ha iniziato. Non sono interessato ad altri stili e ciò che mi interessa sono i contenuti. È stato lui a introdurmi nel mondo dei festival, ed essere a Venezia per la prima volta è una cosa che mi emoziona molto.
Come in Delitto e castigo di Fyodor Dostoevskij anche l’inizio di Verdict afferma l’ineluttabilità della pena per chi è colpevole. Il crimine è palese e la polizia è molto efficiente nell’assicurare il responsabile alla giustizia. Poi, però, il corso degli eventi inizia a mostrare incongruenze, lasciando che a contare siano amicizie e potere economico e, dunque, la possibilità di comprarsi la propria immunità. Vorrei chiederti se quanto detto è in accordo a ciò che volevi mostrare nel film e se tale descrizione può essere intesa anche come la metafora di quello che accade non solo nel tuo paese ma nel resto del mondo.
In realtà, secondo me questa metafora rispecchia la situazione attuale nelle Filippine. Per conoscerne la realtà ho intervistato molte vittime di violenza domestica e poi ho fatto la stessa cosa con i rappresentanti del sistema giudiziario, per sentire anche la loro versione. Volevo conoscere entrambi i punti di vista. Il sistema rende la vita difficile a entrambi ma, sopratutto, alle donne. Le ricerche mi hanno fatto capire che non esiste una legge specifica per questo tipo di violenze e che il più delle volte è la casualità a risolvere questi casi; però non voglio criticare il sistema giudiziario. È il loro lavoro e hanno le mani legate. Non conosco in realtà una soluzione per questo problema. Ho solo portato alla luce questa situazione. Lo ritenevo importante.

In un film di stampo realistico, come lo è il tuo, di solito si tende a restare sul personaggio protagonista, mentre tu ti volgi anche agli altri, alcuni dei quali assumono un ruolo di primo piano, a cominciare dalla macchina burocratica incaricata di seguire il caso. Voglio chiederti se questo è un modo per dirci che siamo tutti coinvolti in quello che accade a Joy e Dante.
Hai ragione, l’ho fatto per questo motivo. Seguivo i personaggi negli uffici per coinvolgere le istituzioni. Ho usato questo stile perché in ogni sequenza avevo la possibilità di avere una guida in grado di seguire le mie istruzioni. D’altronde, nel film tutti sono sottoposti agli interessi della burocrazia, ma questo non vuol dire che abbia voluto fare di essa l’argomento principale della storia; non ho voluto drammatizzarla, perché la vita è più drammatica e ho preferito focalizzarmi su quella di Joy. Rispetto ai fatti accaduti ho fatto vedere la sua versione e quella di Dante, cercando in qualche modo di bilanciarle con il punto di vista delle istituzioni. Lo si può notare quando il giudice legge gli atti processuali, pesando le ragioni degli uni e degli altri.
Nel tuo film la macchina da presa sembra corre dietro ai fatti. Allo stesso tempo, però, la drammaturgia lavora sotto la pelle del film e degli spettatori. Così succede che all’inizio appare tutto molto chiaro: da una parte abbiamo la vittima, dall’altra una polizia molto efficiente nell’assicurare il colpevole alla giustizia. Poi, a un certo punto, il meccanismo si inceppa e le cose iniziano a cambiare, perché a contare non è la verità ma, piuttosto, la capacità dei singolo, e in questo caso di Dante di poter comprare la propria immunità davanti alla legge. Quanto hai lavorato sulla sceneggiatura per realizzare questi collegamenti (parlo anche di quelli tra la storia e gli attori).
Ho intervistato le donne abusate e così ho fatto anche con i potenziali carnefici, sentendo anche la loro versione sul perché hanno picchiato le mogli. Alcune cose sono molto logiche, altre del tutto irrazionali. Per quanto riguarda lo stile delle riprese, dal momento che stavamo girando un film reale ho cercato che la macchina seguisse una trama ben precisa. La parte scritta riguarda tutta la fase processuale, quella in cui c’è la possibilità di conoscere la testimonianza di Dante. Ne ho seguiti molti, soffermandomi in particolare sulle dichiarazioni delle vittime, assicurandomi di descrivere al meglio le violenze domestiche. Aggiungo che stavamo girando con un piccolo budget, per cui a volte accadeva che nel momento in cui stavamo realizzando le scene ci accorgevano che nella realtà non funzionavano. Mi sono trovato più volte a dover improvvisare, trovando il modo migliore per comunicare l’essenza della scena. Questo è il mio modo di dirigere.

In film come il tuo di solito si fa un gran numero di riprese e, di conseguenza, si lavora molto in fase di montaggio. A te com’è andata?
Sono anche scrittore, ma in questo caso ho chiesto aiuto ai miei assistenti per raffinare la struttura del film in maniera di ricordarmi sempre dell’argomento principale che c’è dietro. Quando ho scritto la sceneggiatura, ero dalla parte delle vittime; quando giro il film, invece, sono fedele alla sceneggiatura, mentre nel montaggio sono leale al materiale raccolto. È un cerchio. Se stai scrivendo una sceneggiatura devi avere un referente, dopo giri il film e c’è il montaggio del girato. Terminata questa fase hai la responsabilità di essere onesto e fedele. Prima vedi le cose e dopo averle viste le scrivi. Pensa al documentario: la prima parte del nostro film è come se lo fosse per tutti i documenti che ci sono. Rispetto alla fiction c’è sempre un fondo di verità. Nel documentario la tua guida è il personaggio e tu non hai spazio per parlare perché è lui a farti da guida. Nella fiction invece hai modo di fissare quello che vuoi dire.