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Le giornate del cinema muto e i maestri della Shochiku

A Pordenone dal 2 al 9 Ottobre si sono svolte “Le giornate del cinema muto”. Quest’anno l’attenzione è stata rivolta soprattutto al cinema giapponese e, in particolare, ai maestri della Shochiku, la celebre casa di produzione cinematografica. Hiroshi Shimizu, Yasujiro Shimazu e Kiyohiko Ushihara sono i tre registi di cui si è svolta la retrospettiva, mettendo in luce una stagione cinematografica assai originale e ai più sconosciuta. Il cinema giapponese costituisce sempre più motivo d’interesse in Italia; Martina Bonichi ci racconta questo viaggio misterioso e affascinante.

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Nella fusione tra immagini pienamente sfarzose e le tecniche di realizzazione che richiamano un gusto cinematografico caro alle avanguardie – rivolgendosi a grandi registi come Murnau, Lubitsch, Lang e Stroheim  – il film Ragazze giapponesi al porto (1933) del regista Shimizu, è il primo in programma a documentare la grande maestria del cinema muto giapponese, il più famoso di quell’espressione tipica della produzione Shochiku, dedita alla confezione di film appartenenti al genere melodrammatico.

Lo “stile Kamata”, il sobborgo di Tokyo in cui vi erano gli studi, diventa famoso alla fine degli anni venti per il modernismo peculiare delle sue pellicole, uno stile volto a fondere le tradizioni locali e le influenze occidentali.

Dopo decenni in cui si è creduto che fossero andati persi, appaiono in programma a Pordenone, al teatro Verdi durante Le giornate del cinema muto, dei film giapponesi prodotti dalla famosa casa Shochiku.

“I tre maestri della Shochiku che affrontiamo quest’anno sono completamente dimenticati anche dagli addetti ai lavori”, così racconta il presidente del Silent Movie, Livio Jacob in apertura della 29ª edizione (conclusasi con la consegna del premio Jean Mitry a Kevin Brownlow), svoltasi dal 2 al 9 Ottobre scorso.

Accanto a film riscoperti, restaurati e rarità mai viste sul grande schermo,  presentate dal direttore del Festival David Robinson, appaiono le pellicole di Hiroshi Shimizu, Yasujiro Shimazu e Kiyohiko Ushihara come fondamentale documento dello stile della Shochiku in cui si descrivono le scene di vita realistica della vita giapponese, nelle quali si distinguono uno spiccato gusto melodrammatico – richiamando certe caratteristiche del teatro Kabuki – ed allo stesso tempo si sceglie uno stile visivo tipicamente europeo ed hollywoodiano.

L’influenza del teatro kabuki, infatti, non fa che sottolineare lo stile di recitazione, che si dà a vedere nella scelta molto frequente delle inquadrature fisse e dei piani sequenza, così che l’emotività dei personaggi rappresentati la si riscontra attraverso una gamma espressiva del tutto insolita nel panorama del cinema europeo.

A causa di un a forte censura, dopo un breve periodo che vede un cinema impegnato negli anni venti in cui si mettevano in evidenza le contraddizioni dell’era capitalista, il cinema comincia a dedicarsi a rappresentazioni più intime e private, mettendo in scena la vita familiare dell’individuo che diventa il tema dal quale partire per rappresentare oggettivamente il fondamento stesso della società giapponese. Distinguendosi per la scelta di ambientazioni metropolitane ed una profonda ammirazione per il cinema occidentale sul piano stilistico e  formale, la storica casa di produzione Shochiku diventa il vivaio nel quale proliferano registi di grande spessore che avranno modo  di dedicarsi ad una sperimentazione costante.

Nella stessa casa di produzione accanto ad un regista di fama internazionale come Yasujiro Ozu (1093 – 1963), lavora Shimizu – conosciuto all’estero per la sua ricchissima filmografia dedicata ai bambini negli anni del sonoro – autore molto prolifico che dimostra una profonda sensibilità nel cogliere, sullo sfondo delle atmosfere urbane, personaggi complessi, appartenenti di solito al ceto medio, drammaticamente legati ad un destino tragico, per il quale fuggire sembra l’unica soluzione. Così capita alle figure femminili, donne divise tra la tradizione alla quale sono legate e l’istinto di libertà dal quale sono attratte. Nei film presenti nella rassegna, da Sette mari (1932), Ragazze giapponesi al porto (1933) ad Eclissi (1934), di Shimizu colpisce una raffinatezza scenografica, in cui, attraverso l’uso insistito di campi lunghi, emerge l’elegante simmetria delle figure che contemplano la vista di una strada o di una nave in porto.

Come secondo nome in programma Yasujiro Shimazu – entrato alla Shochiku come assistente di Minoru Murata in Anime sulla strada (1921), film manifesto del Modernismo di Kamata – che, già dagli anni venti, si dedica al genere della commedia leggera di ambientazione contemporanea, anticipando quello dedicato alla vita delle classi medio – basse (shomin-geki), nel quale la casa Shochiku si distinguerà pochi anni dopo. Diventando ben presto tra i più importanti rappresentanti del genere, Shimazu avrà il compito di girare un film ad alto budget, L’amore sia con gli uomini (1931) in cui verranno usati più di sessanta diversi set. Anche Domani sarà un bel giorno (1929) e La bella (1930)  sono esempi di come il regista mettesse in risalto la predilezione per il dettaglio naturalistico accanto ad una abituale critica al sistema sociale.

Regista, cinefilo, teorico e scrittore, Kiyohiko Ushihara, soprannominato “Ushihara il sentimentale”, l’ultimo autore proposto è decisamente il più hollywoodiano tra gli altri e grande estimatore della cultura occidentale. Amante delle commedie brillanti, l’eclettico regista si distingue per le eleganti carrellate ed uno uso frequente di campi lunghi in cui si susseguono diverse ambientazioni, per lo più in esterni.

Da Una regina sulla spiaggia (1927), L’età dell’emozione (1928) fino a In marcia (1930), film più prestigioso, Ushihara si distingue per una messa in scena ambiziosa e per la naturale maestria nel dirigere commedie d’azione nelle quali si distinguono i caratteri brillanti e comici della coppia Denmei Suzuki e Kinuyo Tanaka.

Il ricco uomo d’affari, come lo descrive Shimazu ne L’amore sia con gli uomini, alle prese con due figli avuti da donne diverse, come le giovani studentesse  innamorate dello stesso uomo in Ragazze giapponesi al porto, film in cui Shimizu raggiunge l’apice della rappresentazione per la sperimentazione formale, o ancora un giovane uomo alle prese con il conflitto tra l’amicizia e l’amore in L’età dell’emozione, del regista più hollywoodiano degli altri Kiyohiko Ushihara, diventano tutte delle maschere cangianti per la loro particolare mutevolezza.

Maschere che rappresentano la prima età dell’oro del cinema giapponese, raccontando, tra la fine degli anni venti ed i trenta, le vicende sentimentali di personaggi che si mostrano angosciati, amorevoli, tristi, malinconici e trasognati, trattenendo tutto nella propria immobilità.

Documenti inestimabili del cinema muto giapponese, i film proiettati risalgono però quasi tutti agli anni trenta, quando i registi avevano già cominciato timidamente a sperimentare il sonoro,  proprio come ad Hollywood.

Martina Bonichi


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