Goodbye, Dragon Inn, già presente alla Mostra del Cinema di Venezia del 2003, ritorna con grande potenza evocativa al Lido ben sedici anni dopo, confermandosi come un’opera poetica e di potenza evocativa profonda sulla settima arte. La pellicola ruota attorno all’ultima proiezione prima che un vecchio cinema chiuda per sempre. Vari personaggi, figure o spiriti si aggirano in questo luogo desolato e dimenticato: la bigliettaia, il proiezionista e gli spettatori. Sono personaggi veri o spiriti?
Il maestro Tsai Ming Liang è capace di creare un cinema poetico di profonda riflessione sul Cinema tout court. Grazie alle lunghissime e, quasi estenuanti sequenze, attendiamo fino al punto in cui il rullo della pellicola non si esaurisca, per creare nello spettatore una profondissima sensazione di estraniamento da ciò che vede. Lo stile dall’altro lato crea, in chi guarda, una sensazione quasi contraria, quella cioè di un’esperienza di visione cinematografica nella sua forma più pura. Le lunghissime inquadrature dilatano il tempo diegetico fino allo sfinimento, creando una nota ironica e beffarda verso lo spettatore. Vediamo, dunque, personaggi compiere un’azione di sei minuti e il regista vede bene quindi di filmarla per intero e, perché no, anche allungarla. Il cinema di Tsai Ming Liang non si rivela però solamente un mero esercizio stilistico fine a se stesso, ma piuttosto ha la ferma volontà di guardare o leggere (in cinese il verbo è il medesimo) l’immagine nella sua interezza e forma più completa.
Goodbye, Dragon Inn dimostra come il cinema possa avere realmente una sua spazialità e una sua tangibilità che passa attraverso l’immagine per farsi e divenire verità materiale. Grazie alla formalità della macchina da presa quasi del tutto immobile, che incornicia una fotografia tetra che ritaglia angoli buoi, umidi e corridoi lunghissimi e sporchi, si costruisce uno spazio diegetico spaziale labirintico in cui sembra impossibile trovare una via d’uscita. Rari quei film che riescono, con così grande semplicità, a varcare le soglie dello schermo e dichiarare una propria esistenza materica. Non è un caso, allora, che la persistenza ossessiva dell’acqua sia un elemento determinante. Nel cinema abbandonato è, infatti, tutto un gocciolio: dagli urinatoi agli scarichi, per arrivare, infine, alla pioggia. L’ambiente è a sua volta un personaggio che penetra in modo disarmante nei protagonisti e, attraversandoli, plasma i loro volti e le loro risposte. Lo spazio del cinema, diventato ormai un luogo d’incontro di solitudini umane, si pone così in contrapposizione alla dinamicità del film proiettato in sala.
L’opera del regista taiwanese si nutre, pertanto, di contrasti e fa della dimensione crepuscolare una sua riflessione: un cinema infestato da presenza e spiriti; la realtà di un cinema ormai vagabondo. Il film è il tramonto dell’era che faceva della sala cinematografica il fulcro, di un mondo che sta scomparendo, di uno sguardo antico che si prende tempo o che perde tempo di fronte a quello che guarda. Un mondo in cui la solitudine dei personaggi diventa un leitmotiv e la malinconia di due spettatori, dei quali “non si ricorda più nessuno”, una lacrima amara di un tempo che fu.
Il cinema di sottrazione di Tsai Ming-Liang non è solo uno sguardo nostalgico verso il cinema del passato, quanto una ferma volontà di imporre allo spettatore di guadare gli elementi che compongono le immagini in movimento. Grazie alla dilatazione temporale, possiamo prenderci il tempo di osservare veramente e capire quanto l’immagine cinema sia complessa anche nella sua staticità: colori, suoni, luci e ombre appaiono miracolosamente sullo schermo come spiriti che aleggiavano silenziosi. In questo modo il film, chiunque lo guardi, ne potrà comprenderà il significato e l’importanza dell’attesa; fermandosi a guardare: una concezione quasi un ossimorica in un mondo così veloce.
Alessia Ronge