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Morte di un matematico napoletano, l’opera prima di Mario Martone

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Morte di un matematico napoletano è un film del 1992 diretto da Mario Martone, all’esordio nella regia cinematografica. Frutto dell’intreccio culturale e umano nato intorno all’esperienza dei Teatri Uniti di Napoli, la pellicola offre una rappresentazione di una Napoli crepuscolare (grazie anche al direttore della fotografia Luca Bigazzi), ripercorrendo la vicenda biografica del matematico napoletano Renato Caccioppoli. Con Carlo Cecchi, Anna Bonaiuto, Renato Carpentieri, Antonio Neiwiller, Toni Servillo. Il film vinse il Leone d’Argento – Gran Premio della giuria (Mario Martone), due David di Donatello (Miglior regista esordiente a Mario Martone, David speciale a Carlo Cecchi) e un Nastro d’argento (Miglior regista esordiente a Mario Martone).

Sinossi
Napoli. Il professore Renato Caccioppoli, docente universitario di matematica pura, è un uomo disilluso e tormentato che vive gli ultimi giorni della sua vita. Nipote di Bakunin per parte di madre e reduce dall’ospedale psichiatrico, abbandonato dalla moglie, e divenuto estraneo ai suoi stessi compagni di partito del PCI e ai suoi collaboratori all’ateneo, vive la sua vita con disincantato distacco fino al suo ultimo atto, il suicidio.

Dopo una lunga esperienza nel teatro d’avanguardia, Mario Martone realizzò nel 1992 Morte di un matematico napoletano come naturale sviluppo dei propri interessi in campo drammaturgico. Prima di dare inizio al film, Martone ha studiato a lungo l’affascinante personalità del suo protagonista: “Per molti anni avevo sentito parlare di questo matematico. Caccioppoli era una leggenda metropolitana. Era un uomo conosciuto in tutta la città al di là delle classi sociali: frequentava indifferentemente le persone più umili e gli intellettuali più raffinati, come André Gide che, nel proprio diario, parla del suo incontro con lui quando venne a Napoli. Passava senza alcuna difficoltà dagli anfiteatri delle università ai bar popolari. […] Insieme alla sceneggiatrice Fabrizia Ramondino abbiamo svolto una lunga inchiesta. Visto che non esisteva alcuna testimonianza scritta su Caccioppoli, abbiamo dovuto incontrare decine e decine di persone, professori universitari, compagni di partito, gente comune, persone appartenenti a tutte le classi sociali. A poco a poco abbiamo ricostruito il mosaico della sua esistenza, una vita molto complessa che si svolgeva su molteplici fronti: l’Accademia dei Lincei, l’università, la matematica, la politica ‒ in quegli anni il partito comunista era un partito molto forte e duro, con il quale non era facile avere a che fare ‒ gli amori sempre complicati e molto liberi, la discendenza anarchica… Caccioppoli era il nipote di Bakunin“.

Così Martone elabora un film austero che segue gli ultimi giorni del protagonista prima del suo suicidio, atto liberatorio per un uomo la cui creatività si è estinta e che, rifugiatosi nella solitudine e nell’alcol, non ha altra alternativa se non la morte. Il regista descrive un’esistenza alla deriva, ormai priva di quelle ancore di salvezza che le assicuravano la sopravvivenza, attraverso brevi sequenze in cui accumula annotazioni apparentemente insignificanti, ma in realtà cariche delle sofferenze di una vita ormai giunta al suo termine. Con la padronanza di un cineasta che osserva luoghi familiari (una Napoli descritta in una luce crepuscolare che l’avvolge in un alone di colore caldo e impregna gli interni di una dolcezza ovattata), Martone pone il proprio film in una sorta di atemporalità. Il suo personaggio, al quale l’interpretazione di Carlo Cecchi conferisce una presenza dolorosa e distaccata, vaga per la città alla ricerca di un senso e di una ragione di vivere perduti. Come ha notato Lorenzo Codelli: “Il film non parla di uno scrittore o di un filosofo, ma di uno studioso. Le sue ‘conoscenze’ l’hanno portato a ritenere disperato ogni possibile futuro. E in questo suo camminare attraverso i vicoli, le piazze, le funicolari, le scalinate di Napoli, Caccioppoli sembra trovare un relativo sollievo. Egli si confonde con la sua città. Scrive le sue formule, promemoria illeggibili, sui brandelli dei manifesti rimasti incollati ai muri. In compagnia pronuncia predizioni sibilline. Si burla delle familiari utopie bakuniane come dell’assurdo di Beckett. Non crede più a nulla, ha assorbito tutto. E ha realizzato tutto. Con la sua morte nasce il suo mito. Ma forse egli ne era già cosciente durante questi sette ultimi giorni”. Il film ha ricevuto il Premio speciale della giuria al Festival di Venezia del 1992.

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