Sayidat al Bahr, esordio alla regia della regista Shanad Ameen, è stato presentato alla Settimana Internazionale della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia.
In un villaggio di pescatori vige un rituale: ogni famiglia deve offrire in sacrificio la propria primogenita alle creature che abitano il mare. L’ordine verrà ribaltato con Hayat che, nel momento in cui il padre si troverà a darla in sacrificio, non ne troverà la forza. Dodici anni dopo il gesto del padre produrrà le sue inevitabile conseguenze in quelle che si prefigura essere una società patriarcale: la ragazza sarà etichettata come reietta ed emarginata dalla sua stessa gente ritenendola una vera maledizione.
Sayidat Al Bahr – Scales, girato in un seducente bianco e nero, prefigura una messa in scena dai forti contrasti. Luci ed ombre creano una regia che si fa contemplativa di luoghi fatti di mare e scogliere e i personaggi sono indagati attraverso primi piani insistenti su espressioni e sguardi. Il debutto della regista prende avvio da un precedente cortometraggio che decide di esplorare in modo più approfondito facendone così una fiaba dalla consistenza mitologica che, come ogni classico che si rispecchi, rimane sempre moderno: una sirenetta orientale diventa espediente per parlare d’emancipazione femminile. Nonostante si percepisca la sensazione di un corto allungato, con il procedere della fiaba si svela un mondo senza tempo, ma eterno. Il rituale che si prefigura essere il fulcro della pellicola rivela una simbiosi fra le creature del mare e gli abitanti dell’isola. Un rapporto destinato necessariamente a incrinarsi con la stessa presenza di Hayat. Quello che potrebbe apparire come una dicotomia fra le due forze maschili e femminili in realtà si sviluppa come una grande fascinazione. Basti pensare che le sirene vengano descritte come creature minacciose, ma allo stesso tempo creatrici di vita. Etichettate come esseri feroci e spietate la macchina da presa assume il loro punto di vista e “squama”, letteralmente, l’inquadratura guardando così attraverso i loro occhi.
Lo stesso atteggiamento della protagonista si delinea con un intento di emancipazione e libertà: Hayat insiste per tutto il corso della pellicola per partecipare a tutte quelle attività prettamente maschili. La protagonista la vediamo intenta durante le attività di pesca e di caccia, riuscendo però a mantenere la sua naturale femminilità. La protagonista, capace di conciliare in sé una duplice natura, è dominata da toni acerbi e selvaggi che ne fanno un personaggio di grande fascino e di una grande potenza ammaliatrice. La regista riesce a tradurre tutto ciò grazie a uno stile poetico che, tramite il mezzo cinema, bandisce quasi completamente la parola facendo danzare le sole immagini; evitando dialoghi superflui e velando il tutto in un bianco e nero accecante.
Ameed con il suo Scales, letteralmente “scaglie”, crea un cinema tattile e quasi epidermico in cui la materia, si guardi il mare, ha una consistenza plastica che lo rende ammaliante e magnetico. La regista filma il tutto prendendone però una distanza e lo spettatore irrimediabilmente si sente quasi estraneo e non coinvolto del tutto in quello che sta guardando, ma che allo stesso tempo si riesce a produrre un risultato di pura immagine cinematografica e, proprio per questo, estremamente fascinatorio. La regista si lascia ammaliare ed è ammaliata a sua volta da questo mondo, fantastico e fiabesco di chiaroscuri, in cui domina con forza e potenza un nuovo tipo di sguardo cinematografico fortemente femminile con gli occhi pieni di libertà che puntano verso il mare.
Alessia Ronge