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Venezia 76: Martin Eden di Pietro Marcello (in Concorso)

Tratto dal romanzo omonimo di Jack London, Marcello sa ricostruire il feulliton d’appendice con passione, rendendo il suo Martin Eden magmatico ed enigmatico, impervio e appassionato

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Chi ha detto che per portare al cinema un’opera letteraria si deve necessariamente imitarne il passo, ricercarne il ritmo, sbaglia: lo dimostra Martin Eden, prima opera fiction di Pietro Marcello, che decostruisce l’impianto narrativo fin dall’inizio (quando mostra una parte di storia del protagonista e poi all’improvviso torna indietro, salvo fermarsi più volte successivamente, intervallando le sequenze con inserti documentaristici) per poi arrivare a frantumare la linearità cronologica e la stabilità temporale, arrivando a destrutturare – per fornire di nuovo significato – la scenografia.

Tratto da un romanzo di Jack London, Martin Eden nasce stratificato e portatore di caos: perché alcuni vedono nell’inabissamento finale del protagonista il supposto e mai accertato suicidio dell’autore stesso, perché Marcello trasporta Eden dalla Oakland californiana alla Napoli dei primi del Novecento. Si vede che la gabbia della finzione gli sta stretta: e mentre fa di tutto per sfuggirgli restandone però vincolato, la sua fiction nasce dalle esigenze più intime e urgenti dei personaggi, cosicché il percorso narrativo non fa che adattarvisi. Con estrema disinvoltura, però, complice anche un Luca Marinelli tenuto fermamente a bada dal regista e che evita ogni istrionismo, Marcello sa ricostruire il feulliton d’appendice con passione, rendendo il suo Martin Eden magmatico ed enigmatico, impervio e appassionato. Nella sua messa in scena c’è Bergman (le lettere recitate con primi piani strettissimi), ma anche la tradizione partenopea (spezzoni veloci e anarrativi di vita quotidiana), c’è l’esigenza di usare i cromatismi per richiamare suggestioni ed emozioni, e c’è anche la necessità di frammentare il senso per ricomporlo declinandolo attraverso l’attualità più stringente. Che non ha paura a vestirsi di ideologia: anzi, è proprio la prospettiva utopica del futuro a determinare la condizione stessa dello scacco finale di Martin, il suo crollo all’apparir del vero. Socialismo o individualismo: sono i due poli tra i quali si muove smarrito Martin, e il personaggio riesce ad elevarsi così in alto da incarnare i destini privati e quelli pubblici non solo del Novecento, allungando la loro ombra fino a noi. È l’essenza stessa del pensiero e del progetto teorico di Martin a portarlo, in automatico, verso il fallimento: un fallimento delle idee.

Il romanzo di formazione all’origine del testo si trasforma lentamente e quasi impercettibilmente per scivolare nei territori magmatici dell’attualità legando pubblico e privato, sfilacciando definitivamente l’idea di tempo e azione. Nei passaggi più leziosi che riguardano la famiglia Orsini, fatti di merletti e giochi da buona società e letture, siamo alla fine dell’Ottocento; ma la famiglia di Martin sembra uscire dal dopoguerra, così come alcuni abiti in altre sequenze riecheggiano gli anni ’30. Il cinema alchemico di Marcello mira allora allo spaesamento logico dello spettatore, mentre oggetti e vestiti appaiono come un apparato di simboli enigmatici volti solo a rimandare ad una precisa collocazione emotiva e psichica. Come se il tempo si sovrapponesse a se stesso diventando un unico presente, simbolo soggettivo di un eterno ritorno delle stesse ansie, delle stesse paure, degli stessi fallimenti umani. Come un’archeologia emotiva. Da riscoprire attraverso il cinema.

  • Anno: 2019
  • Durata: 129'
  • Distribuzione: 01 Distribution
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Pietro Marcello

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