In concorso alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Ju Yuan Tai Qi Hao (No. 7 Cherry Lane) è un’opera tanto suggestiva quanto stratificata, probabilmente difficile da abbracciare al primo colpo ma in grado di lavorare anche dopo il termine della visione. Siamo nel 1967 a Hong Kong, in uno scenario splendido seppur pregno di desolazione, guidati da una voce fuori campo che interviene spesso a raccontare quanto accade sullo schermo: così entriamo nella vita di Fan, un giovane e prestante universitario, della signora Yu, che ha deciso di lasciare Taiwan per fuggire al pericolo del Terrore Bianco, e della figlia Meiling, modella nel tempo libero.
Prima incursione del regista Yonfan nell’animazione, a distanza di circa dieci anni dal suo precedente lavoro, il film si muove lento come i suoi personaggi, tentando di andare a fondo in quella che è la loro anima, motivo per cui spesso ci si ritrova in momenti onirici di non semplice comprensione, che comunque hanno la forza e il merito di sollevare riflessioni non così banali. Dal punto di vista della grafica è semplicemente uno spettacolo, curato nei minimi dettagli e pieno di una poesia che tradurre a parole è impossibile. È necessario viverla, sperimentarla in prima persona, poiché l’effetto su ciascuno sarà diverso ed estremamente personale, al di là che il film piaccia o meno. Supportate da una musica che arricchisce ogni singolo momento, variando da un genere ad un altro a seconda della situazione, le immagini riempiono lo sguardo di chi vi assiste, andando a dissetare la sete di tutti quegli amanti del genere cresciuti tra manga e Myazaki.
Per quanto riguarda invece la narrazione, essendo la storia semplice nella sua essenza ma non nella resa, composta com’è di visioni, apparizioni, sogni, ci troviamo dinanzi a un’opera complessa, dalla quale emergono in maniera chiara alcuni elementi – l’importanza della cultura e, in special modo, della letteratura e del cinema, che possono diventare la chiave di lettura di un’esistenza intera; l’immaturità sentimentale, per cui non si riesce a scegliere una persona piuttosto che un’altra; il sacrificio conseguente ad un allontanamento dalle proprie origini, talvolta necessario – mentre ne restano ermetici molti altri, pronti ad accogliere una molteplicità di interpretazioni pressoché infinita.