Ma quanto ci piace Steven Soderbergh? La sua assoluta libertà creativa, il suo cavalcare i generi, il suo voler raccontare le storie ora in film enormi (basta citare la trilogia di Ocean’s, con un cast all star) ora in produzioni minuscole (prima dei Panama Papers era stato Unsane, girato in sei settimane utilizzando per le riprese solamente un i-phone, e prima ancora Mosaic, gioco interattivo diventato serie tv – da noi su Sky Atlantic – che permetteva allo spettatore di scegliere il punto di vista dal quale osservare la vicenda gialla). Ha, allora, a disposizione quel monumento che è Meryl Streep e cosa fa? La porta a Venezia con un meta-film, The Laundromat, che sembra vestire i panni di mockumentary e poi si disperde e si frantuma in mille rivoli e tante storie e personaggi, assumendo i confini larghi della commedia, per raccontare, basandosi sul libro di Jake Bernstein Secrecy World, una vicenda vera ovvero quelle delle truffe scoperte dalle inchieste giornalistiche aperte proprio con i Panama Papers.
Un cinema di denuncia, quindi, territorio spesso marcato da Soderbergh, che racconta verità nascoste vestendole con la sua insostenibile leggerezza. The Laundromat ha un ritmo vorticoso, metatesti che si confondono uno nell’altro, racconti che si sovrappongono e svolte narrative improvvise: e in qualche modo sembra voler fondere quelle due anime del regista di cui si parlava sopra, quella più leggera che appartiene ai grandi nomi (nel cast, oltre a una Streep ovviamente così fuori misura da non far più notizia parlarne, figurano anche Antonio Banderas e Gary Oldman, in due ruoli come non ne trovavano da tempo e nei quali sguazzano gigioni e istrionici, perfettamente a loro agio) e quella invece più stratificata, fatta di informazioni e parole che si rincorrono con una velocità a tratti incomprensibile, vero e falso avvitati insieme in una sorta di format slapstick, monologhi esplicativi e capitoli narrativi che utilizzano diverse forme di linguaggio cinematografico. E nel momento in cui si riesce ad afferrare un capo di questo treno fulmineo e fulminante, appena si sale a bordo dell’ottovolante, non se ne scende più: la bravura di Soderbergh in fondo consiste proprio sulla sua sapienza affabulatrice, sull’utilizzo sempre appropriato del sarcasmo che improvvisamente sa far spazio al dramma più lacerante, sulla precisione millimetrica delle sue trame.
Un caos, a descriverlo con le parole, che trova sullo schermo la sua più indefinibile, insospettabile organizzazione: forma e contenuto convergono magnificamente in un’opera chiusa e autosufficiente, che sa essere sfaccettata e monolitica, ridicola e patetica, drammatica e attuale, profondamente attuale. Perché è a questo che mira lo stile di Soderbergh, è qua che risiede la sua unicità, preziosità: lasciare tracce, seminare indizi lungo tutto una filmografia che volta per volta, film, per film, è multiforme e prismatica, ma che però a guardarla bene allontanandosene un poco nel suo complesso ha una sua giustificazione, un suo senso precisissimo, una ferrea e consapevole urgenza di voler dire qualcosa, facendolo solo e soltanto attraverso il linguaggio filmico, cambiandone la sintassi, variandone il volume e alzandone o abbassandone i toni. Ma sempre, sempre, attaccandosi alla sincerità.