IV edizione del Gioia Tauro Film Festival. Intervista al regista Ciro Guerra
Ospite della quarta edizione del Gioia Tauro Film Festival, diretto da Jonas Carpignano, il regista colombiano Ciro Guerra ha conquistato le platee internazionali grazie a opere quali L’abbraccio del serpente e Oro verde – C'era una volta in Colombia, e oggi si appresta a debuttare nel concorso veneziano con un film - Waiting for the Barbarians - interpretato da Robert Pattison e Johnny Depp. A Lui abbiamo fatto qualche domanda sul suo modo di fare cinema
Inizi spesso i tuoi film soffermandoti su dettagli del paesaggio naturale dai quali le storie sembrano ereditare le caratteristiche. Così neL’abbraccio del serpente è l’immagine iniziale dell’acqua con i suoi rimandi psicanalitici ad annunciare una storia onirica ed ancestrale, mentre in Le vie del vento la terra arsa dal sole sempre anticipare l’asciutta concretezza e la ruvidità dei rapporti umani.
Si, è vero. In generale le storie che racconto vengono dal cuore, così come da luoghi reali, dalle radici e da qualcosa di molto profondo. Allo stesso tempo nascono da posti da cui tutti veniamo. Cerco qualcosa di autentico che possa connettersi con il senso della nostra anima. In fondo, penso che il cinema è un media che si riferisce allo spazio e che quest’ultimo sia essenziale all’arte cinematografica perché essa possa definirsi tale. Dunque, direi che sono interessato a esplorare le connotazioni dei significati che quello spazio produce quando noi vi entriamo in contatto.
A proposito di spazio, unapeculiarità delle tue regie è quella di contrapporre alla dimensione marginale e dimenticata dei personaggi e dei luoghi un cinema di grande respiro, fatto di piani sequenza, panoramiche, carrellate e riprese dall’alto e dal basso. Un linguaggio, questo, paradossalmente ma non troppo, vicino a quello praticato dalle grandi produzioni mainstream.
Amo il cinema, il suo linguaggio e la sua storia. Ed è per questo che porto gli strumenti a suo tempo utilizzati dai grandi maestri della settima arte in posti nuovi e a persone che non sono state mai ritratte dal cinema precedente, uomini e donne che gli spettatori non conoscono. Penso che dobbiamo utilizzare il cinema per espandere la nostra coscienza alle verità delmondo e non per restringerla.
Le struttura narrative dei tuoi film sono spesso costruite sullo spostamento fisico da un luogo all’altro e dalla presenza di due personaggi che, attraverso il viaggio, approfondiscono non solo il loro rapporto ma anche un innato bisogno diconoscenza. Innanzitutto, volevo chiederti se ti ritrovi in ciò che ho detto e poi qual è il processo con cui arrivi a scrivere i tuoi film.
In un certo senso, si. Personalmente, uso per lo più il mio istinto e seguo la storia nel modo in cui si sviluppa e arriva a temi e soggetti a me familiari, perché rispecchiano chi sono io. Si tratta di ciò che mi interessa e che mi spinge a fare film ma, detto questo, cerco di non fare emergere tutto questo in maniera consapevole, ma di farlo venire fuori come se non me ne rendessi conto. In tal modo diventa un processo organico e, si, credo che uno dei grandi temi dei miei film, quello che mi interessa più di altri, consegua dalla possibilità di mostrare come possiamo relazionarci con gli altri. Siamo legati alla medesima esistenza, ma allo stesso tempo abbiamo molte differenze e storie che ci separano. Sappiamo quanto odio ci sia nel mondo e come la nostra Storia sia piena di violenza; da qui la necessità di capire in che modo possiamo coesistere e, soprattutto, avvicinarci gli uni con gli altri.
I tuoi film raccontano storie molto particolari che pescano nella memoria – spesso dimenticata – del tuo paese. Allo stesso tempo luoghi e personaggi danno vita a rappresentazioni di portata universale grazie a un tipo di narrazione fortemente archetipica.
La tua è una domanda molto complessa su cui ci sarebbe da dire molto, ma con un tempo maggiore di quello che abbiamo per questa intervista. Preferisco limitarmi a dirti che c’è del vero nei contenuti della tua domanda e che magari li approfondiremo in un’altra occasione.
Tra pochi giorni sarai alla Mostra del cinema di Venezia per presentare – nel concorso ufficiale – Waiting for the Barbarians. Si tratta del tuo primo film in lingua inglese e della prima volta in cui lavori con attori di fama come Robert Pattison e Johnny Depp. Che tipo di esperienza è stata?
In superficie tutti i miei film sono differenti uno dall’altro, ma a un livello più profondo c’è una corrente che li unisce perché vengono dagli stessi posti. Questa per me è una nuova esperienza sotto molti punti di vista, ma allo stesso tempo è molto connessa a tutti gli altri film che ho già fatto. È solo una continuazione e un approfondimento dei miei precedenti lavori.
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