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‘L’apprendistato’. Conversazione con il regista del film Davide Maldi

Dopo i successi di Locarno e Torino arriva nelle sale L’apprendistato racconto di formazione che mescola realtà e finzione

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Dopo il successo ottenuto nel circuito festivaliero L’apprendistato di Davide Maldi arriva nelle sale raccontando tra realtà e finzione la formazione del suo protagonista. Distribuito da Movieday de L’apprendistato abbiamo parlato con l’autore del film.

Volevo partire dalle scene che aprono il film, perché mi sembrano significative rispetto al modo in cui ti servi del visivo. La prima delle due è immersa nel buio di un ambiente dentro il quale qualcuno si muove indaffarato nei suoi lavori; nell’altra vediamo il ragazzino, situato in un ambiente naturale, impegnato a scalare un’erta. Di impianto realistico, per uso di luci naturali e movimenti della macchina da presa, entrambe sono capaci di trasfigurare il contingente prefigurando il senso di perdita e la fatica prodotti da ciò che seguirà.

Il film l’ho iniziato in quel modo perché volevo sottolineare l’idea di abbandono di qualcosa e l’inizio di altro. Infatti, nella prima scena, quella in cui lui si muove di notte con la lanterna in mano, siamo all’interno dell’alpeggio in cui Luca ha il compito di gestire il bestiame e di controllare che tutto sia in ordine. Si tratta, dunque, di una specie di saluto, inteso come un ultimo sguardo a quello che è stato fino adesso. Il vento che soffia di notte lascia appunto presagire che qualcosa sta cambiando e di conseguenza si lega a tutto ciò che viene dopo; il che, se vuoi, è una forma un po’ metaforica, una parola che normalmente non sarebbe da usare quando si ha a che fare con le persone vere, però passando del tempo con lui abbiamo fatto parecchie camminate e pure scalate e, si, quella sequenza è stata un po la traduzione di ciò che lo aspettava.

Con uno stacco netto, la sequenza successiva ci porta di colpo all’interno della scuola. Il montaggio nel tuo film è importante soprattutto per come riesce a spezzare la linearità del racconto, dando conto dello dimensione di straniamento vissuta dal protagonista a contatto con un nuovo stile di vita.

Guarda, il lavoro di montaggio è fatto con Enrica Gatto, che è una grande montatrice, e va di pari passo con il lavoro di scrittura realizzato con Micol Rubini, con cui abbiamo cercato di tenere sotto controllo tutto quello che avveniva in questo processo e, quindi, fondamentalmente, sia la scrittura che il montaggio cercano di giocare con il genere. Se vuoi, poi, rispetto a tanti altri film, questo ha un introduzione sonora e musicale che ti fa immergere in un altro contesto e scandisce dei tempi e dei ritmi per sottolineare il passaggio da un luogo di pace a un altro, pieno di ossessioni e di paure per il ragazzo. Quello che potrei dire è che il montaggio si lega a un’idea che, comunque, c’era a monte e poi rielabora ciò che la realtà ci ha permesso di prendere, perché comunque L’apprendistato è un film che nel corso delle riprese ha lasciato spazio all’imprevisto e, dunque, il montaggio ci ha permesso di ritrovare quelle idee necessarie per portare avanti una narrazione ben precisa.

A sottolineare la sua importanza è uno dei passaggi principali, quello in cui il protagonista deve scegliere tra ciò che ha lasciato e ciò che potrebbe essere, quindi tra natura e società. Il montaggio alternato che contrappone gli interni dell’istituto al paesaggio naturale, oltre a dare conto del dilemma di Luca, serve anche a scandire il ritmo della narrazione.

Si, assolutamente, anche perché quei momenti è stato molto difficile sapere quando farli arrivare. Da una parte, volevamo ricordare da dove si veniva, lasciare un po’ di nostalgia e far appunto crescere questo senso di angoscia e turbinio che alla fine porta Luca a dire quella frase in cui di fatto dice di non farcela più a sottostare alle regole della scuola. A scandire la narrazione sono i  momenti legati al suo vissuto, ma anche alla sua immaginazione perché in fondo nel film gli eventi vengono trattati in forma fantastica, nel senso che non sai se sono veri oppure no.

Succede con la scena del cinghiale, inserita in maniera sfalsata dal punto di vista cronologico e pure utile a segnalare un altro livello di percezione, qui legato al subconscio del protagonista.

Si, appunto, lasciarlo libero di essere ricordo e desiderio, anche perché ciò che avviene in quella scena è molto realistico, ma anche abbastanza surreale. Il proiettile sparato produce sull’animale una sorta di vernice gialla e solo dopo, quando lo trascina lungo il bosco, si scopre che l’animale è già morto. Per lui è comunque un gioco, certo molto violento e un po’ più insolito rispetto a quelli che fanno gli altri ragazzi. Però è con quello che lui si trova a suo agio.

Il fatto di non far vedere subito cos’è che Luca sta trascinando, unito alla tensione con cui si era conclusa la scena precedente, fa pensare che ci possa essere stata un’esplosione di violenza e che la “cosa” trascinata possa essere anche il corpo di un essere umano.

Quella parte di film è molto scritta perché ci piaceva raccontare il fatto che lui veniva controllato per verificare che le sue mani stessero diventando pulite. Farlo attraverso la sequenza del trascinamento del cinghiale introduce il tema della violenza ma fondamentalmente ci permette di far vedere come lui si risporchi le mani con qualcosa lontano anni luce dal contesto scolastico. C’era, poi, la volontà di giocare un po’ con l’aspetto horror, cosa che ho fatto in maniera sottile e garbata. Naturalmente, non è un film di genere, però porta con sé degli effetti che accompagnano la narrazione creando tensione e suspense in una storia che fondamentalmente è molto lineare, perché si tratta del percorso di crescita e apprendimento di un ragazzo. Abbiamo creato quelle salite e discese di sentimenti e sensazioni attraverso questi meccanismi.

Parlavi di rimandi interni e delle mani che si devono pulire. La stessa cosa si verifica nel momento in cui Luca deve indossare l’uniforme scolastica. Nella prima scena, ambientata nell’istituto, lo vediamo indossare l’uniforme verde, tipica delle reclute, per contro in quella conclusiva succede la stessa cosa, ma questa volta la divisa è di un bianco illibato che, appunto, evoca la pulizia di cui parlavi sopra e, insieme, la presa di posizione riguardo alla decisione sul proprio futuro.

Diciamo che veste gli abiti dell’uomo. Se prima indossava quelli da anticamera e da limbo, perché stava imparando il mestiere, dopo l’apprendistato si mette anche i guanti che sono un po’ l’accettazione dello status quo.

Sono sempre le immagini a raccontarci l’evoluzione del personaggio. Mentre per tutto il film l’irrequietezza e la ribellione di Luca erano segnalate dal perenne movimento del corpo, nelle ultime battute è la compostezza della sua sfigura a farci partecipe del suo cambiamento di prospettive.

Scegliere di lavorare insieme a una classe di prima mi serviva a sottolineare il momento in cui devi imparare a fare una cosa nuova che, per un adolescente di 14 anni, vuol dire anche riuscire a contenersi nei movimenti, nel linguaggio e nell’aspetto fisico. Lavorare con ragazzi così giovani mi ha permesso di accentuare questo aspetto. Come abbiamo detto, Luca ha un animo selvaggio, dunque rispetto ai suoi compagni questa tara è ancora più evidente. Fondamentalmente, quando la realtà si lega un po’ a delle direzioni che ho visto riprendere lo fa sempre in una forma al servizio del carattere del protagonista. La scena a cui ti riferisci è stata girata in un momento in cui realmente e dal punto di vista fisico – io magari me ne sono accorto di più rispetto a uno spettatore – c’è stata anche una crescita di Luca rispetto alle prime scene. Questo fa si che la sua novella narrativa si porti a compimento anche con una crescita fisica.

L’apprendistato è costruito sulla combinazione tra finzione e documentario e sul ricorso all’astrazione ottenuta tra le altre cose, accentuando gli aspetti coreografici delle figure presenti all’interno della scena. Il riferimento è alla sequenza in cui inquadri il movimento dei piedi degli alunni intenti a salire le scale, ma anche a quella del protagonista e dei compagni di classe, uno di fianco all’altro, con in mano un vassoio di bicchieri da mantenere in equilibrio.

Beh, per come l’ho osservato io, il mestiere di Luca ha molto a che fare con una messinscena teatrale. Tant’è che c’è un richiamo al teatro quando, uscendo dalla scuola e recandosi sulla nave da crociera, attraversano una sorta di palcoscenico vuoto e senza pubblico, che altro non è che il luogo dove dovranno agire e, se vuoi, appunto, recitare. Di fatto, il mestiere insegnato all’istituto alberghiero è basato su un’idea di palcoscenico, nel quale recitare una parte, nella fattispecie quella del cameriere, costretto a rimanere ligio al dovere anche di fronte a una persona antipatica e poco gentile. Quindi anche nella regia e nell’estetica si è cercato di far emergere questo aspetto, riuscendo persino a giocarci sopra.

A livello formale l’alienazione del protagonista si evince dal fatto che spesso la macchina da presa lo isola rispetto al resto dell’ambiente, facendo sentire la presenza degli altri solo attraverso voci fuori campo.

Guarda, tendenzialmente c’è stata l’idea di stare solo sul protagonista e sui suoi compagni per far capire allo spettatore quello che stavano vivendo. Il modo migliore per farlo era quello di utilizzare i primi piani. Ci sono diversi momenti, soprattutto quando parlano i docenti, in cui ci si concentra su di lui anche con zoom molto lenti, quasi a dire che, nonostante fuori ci sia un mondo, noi ci concentriamo su di lui. La scelta del fuori campo, insieme a quella di stare sui dettagli, si rifà a quello che dicevamo prima e cioè al fatto di avere un palcoscenico e dunque tre pareti. Ho fatto un lungo periodo di sopralluoghi nella scuola perché volevo che il film in questo fosse pericoloso. Scegliere un punto e non stare a cambiare né focale né punto macchina ogni cinque minuti per la paura di perderti qualcosa. Rispetto a quindici anni fa, quando iniziavo a fare le prime cose, ora arrivo sul set più conscio, però lo stare dentro a quell’ambiente, vedere come si svolgevano le lezioni e muovermi nei vari settori dell’edificio ha fatto sì che potessi concentrarmi in questo modo sulla regia.

A proposito di movimenti, c’era la possibilità che tu potessi scandagliare lo spazio con il piano sequenza, mentre, invece, hai deciso di restare il più possibile fermo; anche le aperture di campo sono rare, laddove hai preferito concentrare i personaggi su piccole porzioni di spazio. Nei rari casi in cui vediamo Luca nella sua stanza lo riprendi come se si trovasse in una celletta monacale. Era questo un modo voluto per restituire la presenza soffocante della sovrastruttura o era il mezzo per risparmiare tempo e soldi nelle riprese?

Non è stata una scelta dettata dai soldi. Mi sento di poter dire che in questo film avevo un controllo sulle cose che mi permetteva di fare tutto. Poi un piano sequenza si puoi fare con un dolly o con una camera in palla. Tendenzialmente preferivo la seconda perché comunque mi piace un cinema povero, e mi piace stare in pochi sul set. Quindi, è stata una scelta dettata anche dal fatto di voler restituire lo stesso rigore estetico del mestiere della scuola. In generale, amo il cinema un po’ più antico e cioè mi piace ricercare delle forme che ho incontrato nel mio percorso di studi e soprattutto volevo che questo lavoro entrasse in contrasto con il presente. Dunque, le scelte sono state fatte per non dare delle connotazioni temporali. Paradossalmente, quella scuola poteva essere collocata negli anni Sessanta e Settanta.

La mancanza di una specifica temporalità crea suggestioni che rimandano ad altri film: a venirmi in mente è stato Another Country, non  solo per la posa e il taglio di capelli di Luca, simile a quello di Everett e compagni, ma anche per il fare annoiato che riguarda entrambi i personaggi, segnalato sia nel tuo film che in quello di Marek Kanievska dagli sguardi dei protagonisti al mondo esterno, visto attraverso le finestre del collegio. Il rigore della sequenza iniziale, ma anche il fatto di stilizzare le figure umane all’interno del collegio, invece, mi ha fatto pensare a In memoria di me di Saverio Costanzo. Se, di contro, guardo alla materia del film dico The wall di Alan Parker. Di queste suggestioni cosa mi dici.

In realtà, quello che mi hai detto mi piace, però da parte mia non c’era la volontà di citare queste opere. Ho visto molto cinema nostrano: Il posto di Olmi è un film che ho guardato più volte prima di iniziare L’apprendistato, come pure I pugni in tasca. In realtà spero di essere riuscito a non copiare nessuno. Molte cose derivano da autori che mi piacciono. Per esempio sono un amante di Kaurismaki; del suo modo di girare come pure di illuminare la scena. Cerco sempre quella teatralità, quindi più o meno è questo il riferimento. Però, ho cercato di non accostarmi troppo a un determinato lavoro. Per esempio, ora che ci rifletto, in quelli che mi hai citato ritrovo delle cose del mio film, ma non li ho presi in maniera conscia come modello.

Accennavi agli aspetti fotografici. All’inizio c’è una fotografia – da te curata – più scura, poi, con il procedere della storia diventa quasi iperreale.

Ho usato sempre e solo luci naturali, giocando naturalmente con le fontiche avevo. Avrei voluto girare questo film non in digitale. D’altra parte, volevo stare da solo quando filmavo, quindi gestire la pellicola sarebbe stato complicato, per cui ho fatto una scelta che ha contribuito molto alla resa fotografica, che è quella di unire una telecamera 4k a delle ottiche Aviflex degli anni ’50 da 35 millimetri che avevano delle lenti molto consumate e, quindi, c’era sempre una sorta di velatura nell’immagine flap. Ciò ha fatto s^ che nella lavorazione bisognasse controllare il bilanciamento dei colori. Fondamentalmente è come se avessimo sempre girato con una calza, legandola poi alla definizione del digitale. Poi, a livello di colorimetria mi sono ispirato agli anni Settanta, cercando di saturare quando potevo. Ho cercato di mantenere una naturalezza che non dipendesse da un’illuminazione aggiuntiva. Tutto alla fine è stata la conseguenza della scelta di dove posizionare la macchina in base al luogo.

Parlando di contenuti, mi pare che L’apprendistato sia un film di formazione e allo stesso tempo di deformazione perché in qualche modo l’aspetto coercitivo delle regole suona anche come critica e presa di coscienza verso quello che siamo diventati. Come dicevo prima, il contrasto tra stato di natura e stato sociale emerge. 

Ma sai, insegnare a un quattordicenne come funzionano le regole del gioco rispetto al mondo del lavoro ma anche della vita è importante. Una cosa che mi ha accompagnato durante la realizzazione del film è stata Kiki – Consegne a domicilio di Hayao Miyazaki, di cui mi è sempre piaciuta l’idea che nell’universo delle streghe ci sia la regola di lasciare la casa per potervi ritornare non prima di aver imparato un mestiere. Può essere una violenza, perché c’è chi ha più peculiarità di altri nell’assorbirne i rudimenti, ma allo stesso tempo non è una presa in giro rispetto a quello che succederà dopo. Oggi succede che si è tutti un po’ più tutelati; la bolla di sicurezza dura molto di più, per cui apprezzavo sempre quando trovavo una persona che durante l’adolescenza, ma anche dopo, mi diceva come stavano le cose. Nel film il Maître è molto contraddittorio, perché se il suo tono è duro e perentorio le cose che dice – secondo me – non sono sbagliate. Fondamentalmente, se letti in un altro modo, i suoi modi sono efficaci e onesti nel trasmettere all’adolescente il messaggio fondamentale e ciò che se vuoi lavorare ci sono delle regole da seguire.

La bellezza de L’apprendistato sta anche nel suo essere aperto a molteplici letture. Io, per esempio, in quello che dicevi ho visto una metafora della società moderna, soprattutto nell’asservimento e nella spersonalizzazione presenti nelle metodiche lavorative.

La base del ragionamento, infatti, è quello del rapporto tra servi e padroni. Una volta mi capitò di leggere un manuale di Jonathan Swift,  un libricino leggero e ironico scritto nell’Ottocento in cui  lo scrittore, avendo lavorato presso diverse famiglie, dava in maniera ironica dei suggerimenti per sopravvivere a quel tipo di esperienza. Da parte mia, ho cercato di fare la stessa cosa, perché mi sembrava potesse tornare utile all’esistenza dei nostri tempi fornire gli strumenti per capire come affrontare il problema, sia dal punto di vista fisico che psicologico.

Il finale, con lo sguardo in macchina del protagonista, assume diversi significati. In qualche modo, ci rende complici ma anche ci chiede conto dell’eredità che abbiamo lasciato alla gioventù.

Si, c’è questo doppio gioco che sono contento tu abbia notato. Spero che questa cosa arrivi forte, anche perché prima di quello sguardo c’è una cosa che per me è ancora più importante e cioè il fatto che il Maître, prima dell’enunciazione delle regole più violente, quella di non dare ai clienti i propri riferimenti politici e il fatto che il cliente è la ragione stessa del lavoro, si pone – anche nel linguaggio – come un consigliere dei giovani, raccomandandogli di non incrociare mai lo sguardo di una persona che non li sta guardando, perché se cosi fosse le loro pene continuerebbero per sempre.

Si, è la prima volta che va loro incontro, mettendosi in qualche modo dalla parte degli “apprendisti”.

Quello è un consiglio per dire: e va bene, farete questo lavoro però siate furbi, altrimenti vi risucchiano. Si tratta di un’istruzione per sopravvivere alla gestione delle persone che incontreranno nel loro lavoro.

A cui appunto segue lo sguardo in macchina…

Si, lo sguardo in macchina crea complicità. In realtà, ho voluto lasciare un finale semi aperto. Per me lui è un furbo. Nella vita reale Luca è molto intelligente. In un’altra delle mie letture, quella de I fratelli Tanner, c’è un ragazzo che impara più mestieri ma cerca di mantenere la sua libertà. Quello sguardo in macchina significa anche rivolgersi allo spettatore per dirgli: “ok, tu sei complice, sei come me, che dobbiamo fare?”. Cioè dobbiamo accettarla questa regola oppure no? Ricordiamoci che stiamo parlando di un quindicenne colto in un momento di passaggio, in una piccola parentesi del suo romanzo di formazione, dopo la quale sarà lui a decidere se farlo oppure no.

A partire da Luca Tufano, che entra nel film nella parte di se stesso, agli allievi frequentatori e ai loro docenti, la parte documentaria del tuo dispositivo è rilevante. Soffermiamoci su Luca: con lui che tipo di impegno avete condiviso?

Allora, ho iniziato e concluso il lavoro facendo capire a tutti che nessuno sarebbe diventato un attore, perché è un film che parte dal documentario, e quindi dall’istituto a cui ho chiesto il permesso di entrare. Questo è stato l’incipit, poi, durante i sopralluoghi, ho spiegato in realtà cosa volevo fare. Dopo averne girato molti altri, la scelta di quell’istituto si è basata anche sul fatto che nel discutere delle motivazioni della scuola e del lavoro che volevo fare abbiamo trovato un punto di coesione. La scuola poi aveva un palazzo incredibile e questo ha poi permesso di proporgli un film che prevedeva un lungo tempo d’osservazione e di studio. Mi è capitato di fare dei veri e propri provini soprattutto ai primini, perché volevo cercare di salvaguardare – cosa che faccio sempre – l’aspetto documentaristico. Anche se poi nelle riprese e nel montaggio ho in mente una direzione che voglio seguire. Comunque, durante queste brevi chiacchierate ho incontrato la classe di Luca. Inizialmente lui era molto, molto timido. Rivedendo le interviste di Micol Rubini, la coautrice del film, si vede che è stata lei prima di me a vedere in lui qualcosa in più, al di la della sua fisicità, che arriva in maniera più immediata. Quindi, abbiamo cominciato a ragionare e io, a frequentare la scuola, ogni volta filmando qualcosina in più. A lui nei primi mesi non ho mai svelato che sarebbe stato il protagonista del film. È accaduto tutto in maniera naturale, perché comunque era un film che poteva non realizzarsi. Questa cosa è andata avanti quattro cinque mesi, con io che ero lì e non sempre filmavo. Poi, il rapporto con Luca si è intensificato, lui si è sentito sempre più a suo agio e ha tirato fuori una potenza e una tranquillità presenti sia quando non sapeva di essere filmato, sia quando glielo dicevo. Il suo personaggio è stato un’evoluzione naturale.

La scrittura è andata di pari passo o era preesistente alle riprese?

È una scrittura che non ha una sceneggiatura perché non contiene dialoghi scritti. Io vengo dall’illustrazione e dal fumetto, quindi tendo a disegnare le situazioni che vorrei filmare. Essendo poi questa una novella, quindi una storia semplice, scrivere la parabola del giovane apprendista non era difficile. Complicato era trovare la location e le persone giuste. Sono stato fortunato, perché i sopralluoghi e la monitorizzazione di ciò che succedeva ha portato poi a questo. Detto questo, non abbiamo scritto in continuazione. Quando giri un documentario fai dei bandi di scrittura, che ogni volta devi aggiornare. Poi, sinceramente, io preferisco disegnare che scrivere, per cui quando questo succedeva era per far capire agli altri cosa avevo in mente. È stato anche il modo per non perdere il filo del discorso e per far sì che il montaggio non fosse troppo lungo. Con Enrica Gatto (la montatrice del film, ndr) siamo stati molto veloci. Lei è molto precisa e quadrata, quindi il lavoro con Micol ha aiutato quello fatto con Enrica.

Qui la recensione del film

Il trailer di l’apprendistato di Davide Maldi, 

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