Il cigno nero è un film assolutamente da vedere. E’ del 2010 ed é diretto da Darren Aronofsky.
Premi e non solo per Il cigno nero
Il film è interpretato da Natalie Portman, Mila Kunis, Vincent Cassel e Winona Ryder, e racconta la rivalità tra due ballerine di danza classica coinvolte nella produzione newyorkese de Il lago dei cigni. La pellicola è stata il film d’apertura della 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e successivamente è stata presentata al Toronto International Film Festival 2010. Per la sua interpretazione Natalie Portman è stata premiata con l’Oscar alla miglior attrice. Il film ha incassato 107 milioni di dollari nei soli Stati Uniti e 222 milioni nel resto del mondo.
La trama
Nina, una ballerina di una compagnia di New York soggiogata dalle ambizioni delle madre, vive per la danza, con completa abnegazione. La scelgono come prima ballerina per interpretare Il lago dei cigni. Ma il coreografo la induce a scoprire il proprio oscuro, così che possa interpretare il cigno nero con la stessa efficacia con cui incarna la purezza di quello bianco.
La recensione di Taxi Drivers (Salvatore Insana)
Il cigno nero è stata la pellicola d’apertura della 67esima mostra di Venezia. Con la premiata Natalie Portman a fronteggiare i propri demoni da cigno schizoide e sdoppiato, dotata della somma, eterea grazia d’una attrice apprezzata (com’è vulgata hollywoodiana), in quanto in grado di somatizzare il proprio ruolo e tracciare sulla maschera/persona un destino attoriale e diegetico. Ovvero quel farsi ancora esageratamente tutt’uno con il personaggio che seguita a sconvolgere lo spettatore in cerca di eccezionalità e performance eclatanti.
Affidandosi a risaputi dualismi mille volte declinati sullo schermo, e per questo forse inestinguibili quanto irresolubili definitivamente il cigno di Darren Aronofsky mutua la trama dal celebre balletto russo enfatizzandone la tensione, la morbosità e l’ossessione del rincorrere il proprio grande sogno con tutti i mezzi e contro la propria imbavagliata e debole natura.
Il bene e il male
Riunire il bianco (fragilità/frigidità, perfezione, idea, tecnica, Apollo, Odette) e il nero (il cuore, la passione, il lasciarsi andare e perdersi nella voluttà dei sensi, del sesso, Dioniso, Odile). Il bene e il male in un solo corpo. Come il coreografo/demone Leroy (Vincent Cassel) chiede alla sua promessa diva Nina (Natalie Portman). Si tratta del logorante tormento metalinguistico della tenera fragilità di una mente instabile nella sventurata stridente comunione con il proprio ruolo, affranta da una dedizione ossessiva.
Testare se stessi nell’atto della performance. Usando, come già si era visto in The Wrestler (2008), il corpo in chiave fortemente espressiva, come psicologico rispecchiamento del travaglio interiore, luogo del conflitto (è indicativo quel ripetuto indugiare della mdp in dettaglio sui piedi doloranti costretti in minute scarpette, sofferenti eppure capaci di staccar il volo), luogo del sentire e della verità.
Le scelte registiche de Il cigno nero
E la disturbata bipolarità si avverte anche nelle scelte registiche. Sono sempre cariche di quel gioco allucinatorio caro e riconoscibile in Aronofsky fin da πgreco – Il teorema del delirio (1998). Il registro patetico, che le abusate note di Tchaikoski consentono, si alterna a quello paranoico del rapporto hitchcocko-freudiano tra Nina e la madre. La camera a mano, come concessione alla palpitazione vivente dello strumento che filma, stride dialetticamente con le riprese. Riprese fastose dei momenti danzanti e di quelli in cui la postproduzione effettistica ci suggerisce la trasformazione della fanciulla in volatile. E ancora e più di superficie la ripetuta ed evidente bicromia scenografica e costumistica bianco/nero. O, infine, quell’avvertire costante nelle orecchie l’ansimar della protagonista. Braccata com’è da chi le sta con il fiato sul collo, e poi solo infine sommersa d’ovazioni e d’applausi.
Fatalmente, fuori dal ruolo o troppo più in là, certi slittamenti di dimensione fanno piombare nell’irresistibile, nell’incontrollabile perdita di controllo, fremente disorientamento e viatico per un’intensità di grado superiore. Si diventa eccedenti. Per volontà o dovere di diventare, ci si infligge una sorta di autopunizione fatale. Quella di accanirsi su se stessi, autodistruggendosi per una sovrabbondanza rovinosa di desiderio, non negoziabile con le faccende standard del reale.
Il pugnalamento della finzione e il dissanguamento finale del corpo candido della messa in scena riappaiono sempre a ricordarci che oltre la recita c’è la vita. Lo struggimento è sempre qui: il compimento perfetto non ammette repliche. Si finisce morendo oppure si fa sempre finta.