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72 Locarno Film Festival: The Nest – Il nido. Conversazione con il regista del film Roberto De Feo (Crazy Midnight)

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Tu decidi di seguire una strada personale, rinunciando di fare leva sugli inevitabili aspetti derivativi tipici del cinema horror. Per esempio, avresti potuto partire dalla fine, sviluppando quella e facendo di ciò che hai raccontato in The Nest – Il nido un semplice preambolo. E invece…

E invece no, però non posso dire il perché, altrimenti rivelerei il finale. Sicuramente, ho cercato di realizzare un horror atipico, che non fosse uno scimmiottamento di quelli americani, fatti meglio per tante ragioni, soprattutto per il budget che hanno a disposizione. A prescindere dai soldi, volevo girare un film che avesse come nucleo centrale la famiglia, in grado nel finale di lanciare un messaggio critico al mondo in cui viviamo. Quindi ho preso temi universali come l’istituto famigliare, il rapporto madre figlio e, nella fattispecie, la crescita e le paure degli adolescenti nel momento in cui dopo aver vissuto per tanti anni all’interno del proprio nido, rappresentato appunto dalla famiglia, dalla propria casa, dal gruppo di amici, ovvero nella comfort zone che ognuno di noi ha, ci si ritrova volente o nolente ad abbandonarla. Questo per dire che i problemi non vanno risolti nascondendosi dietro un muro o dietro una barriera, ma affrontando il mondo come prima o poi tocca a tutti noi.

È anche per questo che The Nest – Il nido diventa un film sul mistero e su ciò che si nasconde dietro la decisione dei personaggi di vivere da reclusi. Come si fa a raccontarlo con così tanto rigore?

Per raccontare un film come The Nest era fondamentale avere il “nido” giusto, ovvero la location adatta. Mi serviva non solo come sfondo cinematografico ma anche per creare le atmosfere senza le quali non avrebbe mai preso corpo il senso di dispersione spazio-temporale necessaria a creare angoscia e ansia all’interno di ogni frame, quella che poi avrebbe portato lo spettatore alla rivelazione finale, rivelando le ragion del perché la madre decida di proteggere il figlio dal mondo esterno. Quello che Elena definisce un mondo cattivo, non pronto a prendersi cura di un ragazzo con un handicap come quello del figlio, bloccato su una sedia a rotelle dopo l’incidente stradale.

The Nest potrebbe essere – anche – un film sull’ambivalenza dell’amore poiché, sempre per parlare di mistero, nella tua storia i personaggi, principali e non, lasciano ogni volta aperta una porta alla circostanza che i misfatti delle loro azioni potrebbero trovare una spiegazione benefica. Secondo me, questo è uno degli aspetti forti del tuo film, capace di reggere dall’inizio alla fine.   

Si, volevo assolutamente che ci fosse una doppia interpretazione, a cominciare da quella tra Bene e Male. Per realizzare ciò, assieme agli sceneggiatori Margherita Ferri e Lucio Besana abbiamo fatto del personaggio di Elena una sorta di doppione della casa sotto spoglie umane, cercando di costruire un ruolo che avesse questa doppia personalità. Nel film la si vede costringere il proprio figlio a situazioni spiacevoli per poi pentirsi e subito dopo ricominciare da dove aveva iniziato. Ciò porta a chiedersi perché questa scelta di bene e male costante, cosa che si capisce solo con la rivelazione finale.

The Nest parla anche di rapporti di forza. In particolare, la dialettica tra campi medi e primi piani ti permette di volta in volta di visualizzare lo spazio fisico che si interpone tra i vari personaggi. Soprattutto nella prima parte la ripetizione di riprese in cui madre e figlio si ritrovano uno di fronte all’altro, vicini ma separati, fanno di quella distanza la rappresentazione di un gap emotivo più che materiale.

Si, sicuramente. Prima dicevo che la location era fondamentale. Ho scelto di girare in una casa articolata in sessanta ambienti, ma alla fine mi sono concentrato solo su quelli più grandi, come la sala da pranzo o il salone, dove Samuele suona il pianoforte, all’interno dei quali volevo che i personaggi vi figurassero alla pari dei mobili e degli alti arredi. Prima che dai personaggi, mi interessava partire dalla location; volevo che loro sembrassero quasi inghiottiti dagli ambienti per creare la sensazione che ci fosse questo nido la cui funzione rimane incerta, perché fino alla fine non sappiamo se ne sono protetti o posseduti.

Se i rapporti tra spazio e figure sono netti e ben delineati, al fine di rendere evidente il gelo emotivo e la gerarchia esistente all’interno della casa, così non succede per gli altri elementi presenti all’interno del campo visivo. La luce contrastata della componente fotografica e il calore delle scenografie in realtà spezzano la compostezza formale dei vari quadri, facendo venire a galla una malinconia per un passato che non esiste più e per un presente incapace di sostituirlo.

C’è stata una ricerca molto approfondita. Con il direttore della fotografia Emanuele Pasquet ne abbiamo parlato tantissimo, anche perché si cercava di far sentire non solo la malinconia. Ad un certo punto, c’è un dialogo che rappresenta quello che abbiamo tentato di ricreare con la fotografia. La frase che viene detta da Elena rimanda esattamente a quello che volevamo visualizzare: la paura massima deriva dal pensare di non poter più avere qualcosa che prima amavamo, quindi il timore della perdita. Con la fotografia abbiamo sottolineato quel lato del racconto.

Tu abitui lo spettatore a familiarizzare con una determinata visione dei personaggi e dell’ambiente per poi spiazzarlo con visioni di tenore opposto. Mi riferisco alla prima volta che il film esce alla luce del sole, concentrandosi sull’aneddoto raccontato da due personaggi che fin lì non avevamo mai visto. Oppure all’altra, in cui improvvisamente stacchi sulla madre, mostrandola per la prima volta nuda e scomposta dopo sequenze in cui l’avevamo vista rigida e impassibile.

Ma si, ciò che dici fa parte dell’obiettivo principale del film, cioè dell’intento di creare mistero attorno all’ambiguità dei personaggi, di cui mostro aspetti opposti, diversi da quelli che lo spettatore si era abituato a considerare. Il discorso della luce è anche importante. Il monologo che sembra quasi una barzelletta non è buttato lì per caso ma ha un significato rilevante nell’economia del film. Io dico sempre che The Nest per essere apprezzato pienamente andrebbe visto due volte, perché capisci cose che prima non avevi colto. Certo, con Margherita e Lucio abbiamo cercato il più possibile di spingere verso una spiegazione, con però il rischio di essere didascalici. Ci sono state diverse discussioni con loro sul fatto di non rendere il film banale, soprattutto quando sarebbe arrivato il momento di sciogliere il nodo finale.

È esattamente quello che succede, perché le immagini riescono a tramettere informazioni senza bisogno di utilizzare i dialoghi. In questo senso, diventano importanti i dettagli come, per esempio, il modo di portare i capelli da parte di Samuel, pettinati e con la riga in mezzo quando sta con la madre, scarmigliati quando si trova a tu per tu con la ragazzina, a sottolineare il passaggio dalla prigionia alla libertà innescato dalla comparsa di Denise. Per come è strutturato il film la scelta degli attori era determinante anche sotto l’aspetto fisiognomico. Come li hai trovati?

Sono stato molto fortunato, perché ho trovato subito i protagonisti del film. Justin Korovkin, che interpreta la parte di Samuel, ha dodici anni, suona il pianoforte, è timido, non riesce facilmente ad avere rapporti con altre persone, è molto introverso, si chiude in se stesso. In sostanza era già di suo il personaggio. Lui è italiano di madre canadese e padre russo. Vivono in Italia, quindi parla già tre lingue

La particolarità del suo timbro di voce si addice molto ad esprimere il senso di costrizione vissuto dal bambino all’interno della casa.

Ma lui parla proprio così. Quando l’ho incontrato, gli ho detto subito che era nato per interpretare Samuel, altrimenti non avrebbe avuto senso che avesse avuto 12 anni, sapesse suonare il pianoforte e che fosse timido e impacciato come un personaggio di The Big Bang Theory, quando si trattava di parlare con una ragazza. Era esattamente come il ragazzino che avevano scritto Margherita Ferri e Lucio Besana. Ginevra Francesconi, invece, è un’attrice pazzesca, sono sicuro che diventerà una grande interprete del cinema italiano. Il suo entusiasmo mi ha sempre colpito sul set e continua a farlo perché la vedo costantemente con questi  suoi occhi lucidi. Abbiamo tanto da imparare dai ragazzini; quando si lavora con loro ti rendi conto che dovremmo apprezzare ancora di più il privilegio del nostro mestiere; i bambini sembrano fatti apposta per ricordarcelo. Poi c’è Francesca Cavallin, che io non conoscevo. Quando la scelsi in diversi mi dissero di stare attento perché lei faceva le fiction e dunque era un volto televisivo. Ho sempre risposto che si trattava di un’equazione di poco interesse e che le avrei chiesto di fare altre cose, del tutto diverse da quelle della televisione. Quando l’ho incontrata per il provino è stata bravissima, si è pure presentata con l’abito perfetto per il personaggio, tant’è vero che poi le ho chiesto di utilizzarlo sul set. Lei è un’attrice pazzesca ed è incredibile, come altri grandissimi attori che in Italia vengono messi da parte solo perché hanno fatto delle fiction. È una cosa che può succedere solo da noi. Sono anche orgoglioso dei caratteristi del mio film. Mi stupisco nel sapere che interpreti così bravi siano così sotto impiegati. Comunque non da me.

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