Le nuove stagioni di Orange is the new black sono state trasmesse sempre d’estate. L’ultima, la settima, dal 26 Luglio, è forse la più intensa, perché svela i destini ancora in sospeso, a concludere, se pure con alcuni finali inevitabilmente aperti, le storie delle tante donne recluse nel carcere di Litchfield. La serie ci cattura fin dalla bellissima sigla iniziale, nella quale, sul testo You’ve got Time di Regina Spektor, scorrono velocissimi sullo schermo i volti delle prigioniere. Uno di questi è quello di Piper Kerman, autrice del libro Orange in the new black; my year in a Womens’s Prison a cui la serie è ispirata. I visi, però, gli stessi delle detenute vere del libro, sono spezzati: labbra e occhi tristi o sorridenti, si alternano, a dirci fin da subito quanto queste vite siano frantumate, a ricordarci le Ragazze interrotte del film di James Mangold di vent’anni fa. Clausure tutte al femminile, con quello che ne consegue di solidarietà, ma anche di perfidie, egoismi per sopravvivere, e nello stesso tempo aperture verso le altre. Nascono così grandi amicizie e grandi amori, ripiegamenti su di sé per sottrarsi alla disperazione, disubbidienze pagate spesso con aumenti di pena.
Due mondi, quello delle recluse, articolato nei sentimenti e nei comportamenti, e quello rigido delle guardie, rese per lo più come persone ciniche e disoneste, tanto fallite nella sfera privata da sfogare le loro frustrazioni sulla fragile condizione delle donne. Via via che la narrazione procede, di stagione in stagione, di episodio in episodio, conosciamo le ragioni degli arresti, in flashback che ci mostrano personaggi vittime di un sistema violento, verso il quale Jenji Kohan, ideatrice di Orange, è implacabile quanto merita. Altro che sogno americano! Incubi, dai quali non ci si sveglia, se non per un peggioramento delle situazioni individuali e collettive.
Le ingiustizie si ripetono nella quotidianità della prigione, si fanno insostenibili, fino a esasperare le donne che cercano tutti i possibili espedienti per non soccombere. Sono creative, in questo, simpatiche, anche quelle messe decisamente peggio: chi si costruisce un bunker sotterraneo per le emergenze, chi organizza un traffico online di mutandine usate, fino alle sorelle che lottano allo spasimo annientate dal loro stesso delirio di onnipotenza. C’è una buona dose di ironia, e di paradosso, a stemperare i toni del dramma sociale che non ci risparmia nulla. Dietro le sbarre e fuori. L’ultima stagione, infatti, mentre a Litchfield aumentano i soprusi, con le immigrate irregolari a cui vengono sottratti tutti i diritti, riprende alcune detenute nella loro vita, una volta scontata la pena.
Piper Chapman (Taylor Scilling), che nel 2013 ci ha fatto entrare in quel mondo, torna libera e noi la seguiamo nel suo reinserimento che la società rende oltremodo difficile. Nell’esordio di Orange è la borghesuccia biondina un po’ insulsa costretta a lasciare la sua vita dorata newyorkese per sedici mesi di carcere a causa di un reato che risale a dieci anni prima, verso il quale sembra quasi inconsapevole. Del tutto fuori luogo, viene prese di mira dalle altre detenute, subisce le peggiori angherie, ed è costretta a tirare fuori le unghie per difendersi
Inizialmente il clima di Litchfield ci viene presentato dal suo punto di vista, ma ben presto gli sguardi aumentano, si moltiplicano, e la coralità dei personaggi è talmente riuscita da essere, come in ogni sistema ben rappresentato, molto più della somma dei singoli elementi.
Durante questi sette anni in compagnia delle amiche nemiche o amanti di Piper, e in primo piano della sua storia con Alex (Laura Prepon), viviamo tutte le possibili sfumature delle relazioni tra donne costrette alla forzata convivenza , dal prendersi cura al premeditare l’omicidio, dall’odio al pentimento, fino a una possibile riparazione.
I ritmi sono quelli delle serie tv che tengono incollati al video, anche nei momenti in cui rallentano, che sono poi quelli della tenerezza, del maternage, della sorellanza. Si citava in apertura il film Ragazze interrotte. Beh, c’è una scena che rimane nella memoria, quella in cui Susan (Winona Ryder) mette amorevolmente lo smalto alle unghie dei piedi di Lisa (Angelina Jolie) dopo una delle tante violenze subite nella clinica psichiatrica. In Orange i momenti del contatto fisico tra donne, non solo quello sessuale, o gli sguardi premurosi vincono sulle malvagità. Il messaggio che rimane, tra sorrisi e commozioni, ancor più dopo che le cattive ragazze ci hanno salutato per sempre, è quel restiamo umani che ci tocca ripetere con troppa insistenza in questi tempi così bui.
Il personaggio a cui ci si affeziona di più è poi in realtà il direttore Joe Caputo (Nick Sandow) , un uomo, per la sua sensibilità tutta femminile. Lui, così mite, si espone alle prevaricazioni dei superiori (delle superiori, a dire il vero, due donne, una soprattutto che pensa solo a logiche di risparmio). Goffo al punto tale da collezionare brutte figure un po’ con tutti. Ma sarà lui a vivere un invidiabile percorso di consapevolezza e a volerlo condividere.
Buonismo? Ottimismo? Assolutamente no, anche perché tra le varie vicende, ci sono belle persone che finiscono miseramente. Orange is the new black, infatti, sempre in equilibrio tra gli eccessi di rancori e benevolenze, non perde mai il senso della realtà, in tutta la sua amarezza.