La presenza del cinema giapponese al Locarno Film Festival ha sempre attirato l’attenzione: sarà per il fascino di una cultura lontana, per l’estetica rarefatta delle immagini, per i modi differenti di concepire i rapporti umani. Questi aspetti però iniziano a essere meno determinanti in un mondo sempre più globalizzato per provare empatia per il cinema del Sol Levante, ed è indubbio allora che tematiche e dinamiche emotive affrontate da molti autori nipponici hanno un’originalità di sguardo e una sensibilità molto vicina anche a un pubblico occidentale. Così, Yokogao di Koji Fukada prosegue la tradizione dei film giapponesi presentati nel Concorso internazionale locarnese (solo per citare quelli più recenti come Happy Hour di Hamaguchi Ryusuke e Wet Woman in the Wind di Akihiko Shiota) con una storia di castigo senza delitto che sarebbe potuta accadere in qualsiasi paese del mondo occidentalizzato.
Ichiko (la convincente Mariko Tsutsui) è un’infermiera privata che accudisce a domicilio un’anziana artista malata. Instaura un rapporto intimo con la famiglia della donna, in particolare con le due nipoti: Motoko, che aiuta per l’esame alla scuola da infermiera, e la sorella più piccola. Il rapimento di quest’ultima diventa l’elemento scatenante dello sviluppo narrativo: dopo il suo ritrovamento è arrestato proprio il nipote di Ichiko che ha incontrato la ragazza una sera quando era in compagnia della zia. Se in un primo momento la donna fa finta di nulla, con la complicità di Motoko, dopo la scoperta da parte della stampa – imbeccata dalla stessa giovane che si vendica di Ichiko perché si sta per sposare con un medico – è costretta a rivelarsi per la persecuzione mediatica a cui è sottoposta.
Ci sono due temi importanti in Yokogao. Il primo, più evidente, è la condanna sociale di una persona che non ha colpe se non quella di essere legata in qualche modo al responsabile del delitto. In questo caso solo per il fatto di essere la zia del rapitore (e violentatore) della nipote della donna che stava accudendo automaticamente la trasformano in una potenziale complice, con il sospetto di aver attirato la giovane per soddisfare le voglie del nipote e di aver avuto con lui un rapporto incestuoso in passato. Condanna sociale di cui è portavoce la stampa – una torma di corpi muniti di microfoni e cineprese che si appostano davanti la sua casa e l’ufficio – che la bracca senza pietà e il cui unico scopo non è quello di scoprire la verità, ma di montare la notizia sugli aspetti torbidi e presunti tali. Questo elemento del potere negativo della società dell’informazione – in un mondo in cui ormai i social network la fanno da padrona – avvicina Yokogao al cinema di denuncia americano, che ricordano film come Diritto di cronaca di Sydney Pollack, in cui una giornalista si fa promotrice di manipolare le notizie riguardo a un ex detenuto solo per il suo passato, ma più assonante per sentimento con Scandalo di Akira Kurosawa (tanto per dire che le radici di Yokogao sono ben radicate nella tradizione del cinema giapponese.
Il secondo tema, più importante, è quello del sosia che si sostituisce al protagonista nella sua esistenza. Ichiko, dopo lo scandalo, perde tutto: è prima cacciata dalla famiglia dell’anziana assistita, poi è costretta a licenziarsi dallo studio medico, abbandonare l’appartamento in cui vive e infine lasciare il futuro marito diventato distante per gli accadimenti. Anche la sorella di Ichiko muore (forse per il dolore) e lei rimane sola con il nipote uscito di prigione facendo la cameriera in un ristorante. Ma la linearità degli eventi in Yokogao è incrociata con la vendetta di Ichiko nei confronti di Motoko circuendone il fidanzato. Nella realtà, Motoko aveva da tempo abbandonato il ragazzo perché era cresciuta in lei l’ossessione per Ichiko arrivando a fantasticare una vita domestica insieme alla donna di cui idolatrava. Quando comprende che non riesce nel suo intento la distrugge e si sostituisce a lei. La demolizione di Ichiko diviene anche psicologica: arriva a vedere la ragazza anche quando non c’è (come nella sequenza del parco nella seconda parte) diventando oggetto scatenante della psicosi nella donna.
Il tema del sosia e dell’appropriazione indebita della vita altrui (riprendendo anche il significato del titolo) è un retaggio che Fukada attinge dal suo bagaglio culturale: ha vissuto in Francia ed è influenzato dalla letteratura europea così come si possono intravedere alcuni richiami di nuovo ad Akira Kurosawa e al suo Kagemusha. A conferma di ciò, il regista giapponese chiude Yokogao proprio con l’incontro tra Ichiko e Motoko: la prima è in auto con il nipote, la seconda attraversa le strisce pedonali vestita da infermiera – come lo era Ichiko all’inizio – che accompagna degli anziani insieme alle colleghe. La donna per un momento è tentata di investire colei che ha preso il suo posto, ma, presa coscienza di essere lei stessa divenuta un simulacro, scatena la sua impotenza rabbiosa suonando il clacson (anch’esso simbolicamente un sostitutivo di un urlo). L’ultima inquadratura è un dettaglio dello specchietto laterale dell’auto di Ichiko in cui si riflette il volto della donna: metafora della sua trasformazione in un piccolo riflesso che si sta allontanando da se stessa e dalla sua sostituta.
La complessità di scrittura (Fukada è autore anche della sceneggiatura) è tradotta in un montaggio alternato tra due linee temporali delle vicende narrate in Yokogao: da un lato, il presente di Ichiko che cerca vendetta, dall’altro, in flashback, gli accadimenti passati e lo scandalo. La messa in serie, oltre a lavorare su ellissi temporali, effettua un’implosione cronologica in un presente continuo nella mente della protagonista, creando un mélange con le sequenze del passato e alcune scene oniriche, di cui è protagonista Ichiko, che esprime nella forma del testo filmico il turbamento vissuto dal personaggio. Il regista giapponese equilibra poi questi due elementi con una semplicità nella messa in scena e una conduzione degli attori di cui asseconda la capacità di immedesimazione nei personaggi. Già vincitore di un premio al Festival di Cannes nel 2016 con Harmonium, il settimo lungometraggio di Koji Fukada si rivela un’altra opera di spessore e originalità di sguardo del malessere dell’individuo contemporaneo.