Fin dai titoli di testa La Fille au Bracelet di Stéphan Demoustier rivela una tensione esplosiva. Siamo su una spiaggia dove una famiglia composta da padre, madre, un bambino e un’adolescente giocano e si divertono. Irrompono sulla scena due poliziotti della gendarmeria in divisa e un altro in borghese. Si avvicina quest’ultimo al padre e gli parla, mentre la ragazza si riveste e segue le due guardie. Il tutto avviene senza nessuna spiegazione né dialogo, se non quella dell’immagine stessa con la macchina da presa posizionata a una distanza tale che permette in un’unica visione di seguire i movimenti sulla scena degli attori.
È l’unica scena silenziosa in una film dove, al contrario, i dialoghi saranno importanti. La vicenda si sposta due anni più avanti e La Fille au Bracelet si sviluppa all’interno delle aule di tribunale dove la diciottenne Lise è accusata di aver assassinato la sua migliore amica. La sceneggiatura fiorisce per gradazioni, prediligendo dettagli forniti dai personaggi che entrano in tribunale: la madre e il padre di Lise, due testimoni, la madre della vittima, tre esperti della polizia, più l’interlocuzione continua dell’accusa, della difesa e della parte civile con il giudice. Tutto questo non avviene per lunghe spiegazioni didascaliche dei fatti, ma attraverso misurati e ristretti dialoghi, con la macchina da presa sempre addosso ai protagonisti, inquadrati per lo più frontalmente in primo piano. Questa scelta stilistica esprime lo sguardo chirurgico del regista sulla complessità della vicenda, trasformando il tribunale in una sala operatoria dove la messa in scena diviene il luogo in cui sono trattati i due temi principali di La Fille au Bracelet.
Da un lato, abbiamo il tribunale come agorà in cui si compie un processo che non giudica un delitto in quanto tale, ma emette un giudizio di grado morale. Lise è sotto processo con risibili prove indiziarie come il comportamento sessuale o i suoi atteggiamenti equivoci che danno agio alla pubblica accusa (condotta da una giovane donna) per condannarla. Del resto, ciò è reso esplicito in un interrogatorio, dopo che si è parlato di una fellatio di Lise a un compagno, ripresa dalla sua amica e il filmato pubblicato nel web – movente dell’omicidio secondo il pubblico ministero –, in cui l’accusa chiede a Lise se si ritiene una ragazza “facile” e lei risponde se avrebbe fatto quella domanda se fosse stata un maschio. Ecco che allora il processo non è solo a Lise in quanto individuo, ma è un’operazione sul corpo sociale, sul suo tessuto emotivo, dove a incidere la carne è il bisturi-morale di una società che non comprende più i giovani e i loro comportamenti.
Dall’altro lato, questo aspetto, si collega al secondo tema d’interesse di La Fille au Bracelet: il tentativo di mostrare il mistero dell’adolescenza, di quell’età di confine in cui si sperimenta la vita, momento di transizione tra il mondo infantile e l’età adulta. Ma soprattutto Demoustier racconta l’incomunicabilità tra genitori e figli, la perenne domanda senza risposta se un padre e una madre conoscano veramente il proprio figlio o la propria figlia nei suoi pensieri e desideri. Il regista francese sembra dire che viviamo nell’impossibilità di questa situazione, dimostrandola attraverso i silenzi che intercorrono tra Lise e la sua famiglia, la sua inespressività durante le udienze, la sua indifferenza e i suo distacco dagli eventi in atto che rasentano l’anaffettività conclamata e che ne determina la colpevolezza di fronte alla legge sociale. Soprattutto Lise è ripresa spesso fuori dal tribunale attraverso i vetri dell’auto o quelli di finestre e all’interno dell’aula di dibattimento è rinchiusa in una gabbia circondata dal vetro. Queste inquadrature determinano un certo elemento di molteplicità dello sguardo, di un’affermazione del suo doppio, di una mancanza di messa a fuoco della personalità della ragazza.
Dobbiamo anche notare che le riprese frontali di Lise all’interno della gabbia inquadrano anche il riflesso di un pubblico che simbolicamente si proiettano su di essa come folla accusatrice e oppressiva. Fino ad arrivare nel finale in cui Lise si allaccia una catenina attorno alla caviglia al posto del bracciale di controllo che le hanno appena tolto. Simbolo di un danno permanente, di una marchi d’infamia sociale che ormai si è impresso nel suo corpo sorvegliato e punito fino a quel momento.
Con La Fille au Bracelet Stéphane Demoustier utilizza un sottogenere come quello del dramma giudiziario ridefinendone il registro, compiendo uno scarto nella sua forma, rispetto, ad esempio, a classici come Giustizia è fatta di André Cayatte, Anatomia di un omicidio di Otto Preminger o Il verdetto di Sidney Lumet, prediligendo una messa in scena claustrofobica e concentrandosi sulle percezioni degli sguardi anziché sulle dinamiche processuali e psicologiche tradizionali, delimitando lo spazio e il tempo filmico a precise e costanti direttrici scopiche.
Presentato al 72° Locarno Film Festival in Piazza Grande, La Fille au Bracelet è un’opera preziosa, in cui Demoustier è capace di tradurre la profondità del contenuto attraverso una forma visiva coerente e di forte impatto visivo.