La selezione principale del 72° Locarno Film Festival è iniziata con A Febre, opera prima dell’artista brasiliana Maya Da-Rin, che racconta i giorni di Justino, un uomo di quarantacinque anni diviso tra il suo lavoro di guardiano al porto di Manaus e i richiami delle sue radici indie. La febbre del titolo è quella che colpisce Justino, intorpidendolo, una metafora del malessere che ha investito la nazione brasiliana e della sua politica repressiva nei confronti delle popolazioni amazzoniche. Ecco che la visita del fratello dalle terre del popolo Desana diventa un’occasione per Justino per un momento di autocoscienza. Questo avviene attraverso il sogno e le leggende del suo popolo che l’uomo racconta al nipote. Così la terribile belva che si aggira nei dintorni di Manaus – e di cui le televisioni locali riempiono i palinsesti – è il simbolo ancestrale del rapporto uomo-natura che si è perso e si scontra contro il razionalismo capitalistico dei bianchi. E diventa, in qualche modo, una proiezione della lotta interiore che vive l’uomo.
Del resto, questo aspetto è ancor più approfondito da alcune sequenze essenziali disseminate con equilibrio in A Febre: ad esempio, il confronto tra il mantenimento di Justino che deve lavorare, guadagnare denaro e spenderlo per acquistare i bene essenziali per vivere – l’accumulo del capitale e il consumo – e il fratello che invece cura la terra, caccia e pesca e gli chiede aiuto, in una visione panteistica delle relazioni sociali e la raccolta di beni strettamente necessari alla collettività. Oppure i brevi dialoghi tra Justino e il nuovo collega durante i cambi dei turni di guardia, in cui affiora lentamente il razzismo latente e la teorizzazione dell’”indio addomesticato”, come si vedono a Manaus, contro quelli della foresta con cui si risponde con le armi da fuoco sempre pronte a sparare e uccidere.
E, infine, in A Febre è presente il principale confronto tra passato e futuro, tra Justino e sua figlia che deve partire per Brasilia per frequentare la facoltà di Medicina. Il rapporto di amore è anche un momento di transizione da uno stato all’altro di Justino come essere umano: da un lato, la figlia diventa la proiezione delle aspettative dell’uomo per affrontare al meglio il futuro; dall’altro, evidenzia il suo stato malinconico di personaggi liminale, letteralmente in mezzo a un guado, in una terra di nessuno come può essere una frontiera tra due culture e gruppi sociali.
Maya Da-Rin racconta tutto questo in A Febre restando sempre a una media distanza dal protagonista. La cifra stilistica è indicata fin dalla prima inquadratura dell’incipit in cui vediamo Justino ripreso frontalmente in piano americano mentre compie il suo turno di guardia con alle spalle un anonimo container del porto, mentre è colto da sonnolenza e si sentono i rumori ambientali. Una semplicità di messa in quadro geometrica che l’autrice brasiliana riprende e ripete lungo tutto il film, creando dei veri e propri dipinti di un nitore visivo in cui il personaggio è sempre geometricamente posizionato al centro. A Febre risulta convincente come opera in cui il rapporto tra realismo e condizione ancestrale è messo in scena attraverso un’esposizione del protagonista con una fissità corporea che ipnotizza lo spettatore. Un film che riesce a esprimere una tensione emotiva compatta, rocciosa, dove i sentimenti, le paure, le tristezze sono ritratte tra un’inquadratura e l’altra in piccoli movimenti visivi e scarti di montaggio che trasmettono i cambiamenti come movimenti sussultori di un territorio fantastico. A Febre di Maya De-Rin è una di quelle (piacevoli) sorprese che un Festival come Locarno regala spesso agli spettatori pazienti e fiduciosi.