Tesnota, premio Fipresci di Un certain regard 2017, arriva nelle sale italiane soltanto adesso ed in piena estate. Eppure questa opera prima del 28enne Kantemir Balagov, ispirata a fatti realmente accaduti, lascia indizi autoriali da tener d’occhio: i 4/3 del formato visivo, il minimalismo, il ‘naturalismo’ sociale, politico ed economico in cui ci immerge e la sua claustrofobia che ci risucchia.
Nal’čik, capitale della repubblica russa Cabardino-Balcaria, Caucaso del Nord, anni ’90: la Cecenia è vicina e ancora in tensione. Tensione che si respira anche in questo nucleo sociale frammentato in ‘tribù’ etnico-religiose. I cabardi mulsumani e la minoranza ebraica a cui appartiene la famiglia itinerante di Ilana (l’esplosiva, a tratti eccessiva, Darya Zhovner), giovane ventenne intenta a rovistare dentro il ventre di una macchina nel garage del padre. Cappellino, salopette di jeans ed un’inquietudine che si porta dentro e nella famiglia, prossima a festeggiare il fidanzamento del fratello minore David. La serata rivela a noi molte cose e ci fa respirare la segregazione di una comunità (ebraica) e di legami di sangue attaccati alle proprie tradizioni. Ilana è in trappola, lo sa, e cerca di resistere, non abbandonando la propria ribellione esterna ed interiore. Fuma, si rifiuta di indossare abiti femminili, di accettare la corte di un giovane ebreo amico di famiglia, frequenta Zalim, il gigante buono cabardo a cui è legata in segreto. Questa tensione si accentua quando David e la sua promessa sposa vengono rapiti. Ilana prenderà atto dell’autocensura del ‘clan’ ebreo, in cui è d’obbligo non denunciare il fatto alla polizia ma risolvere il problema con il pagamento del riscatto, del loro cinismo ed ipocrisia e della dura legge della propria famiglia, disposta a sacrificare Ilana pur di recuperare a sé David.
Il giovane Kantemir Balagov, formatosi alla scuola di Aleksandr Sokurov, riesce a dare materia ed emozioni al bilico tra prossimità e distanza che ci mostra, incarnati nel personaggio di Ilana (diretta ancora acerbamente, non contenendo ad Darya Zhovner eccessi emotivi e mimiche che a tratti si rivelano forzate), schiacciata tra la ribellione e il bisogno di coloro a cui si appartiene per nascita, dominata da un punto di riferimento che stringe così forte da soffocare e reprimere. L’alter ego femminile, sua madre (una intensa e perfetta mantide religiosa Olga Dragunova), sacrificata alla famiglia, innamorata del figlio maschio e in attesa della giusta ricompensa di donna sottomessa al proprio ruolo e al rispetto di tradizioni mai messe in discussione, è l’ostacolo più difficile da superare per la giovane donna, che dovrà cederle, nel momento più alto e più doloroso della propria ribellione.
Visivamente, la scena-simbolo della prospettiva impossibile di alcune esistenze, è il sacrificio sessuale di Ilana, accerchiata da un rosso tenue e stretta in un pudico ‘spazio’ da cui noi possiamo solo avvertire tutte le contraddizioni e i timori di quell’atto di ribellione. Gli home made clandestini degli sgozzamenti dei prigionieri da parte dei miliziani Ceceni allargano visivamente il confine di questa piccola storia privata di formazione ad un universo dominato da una calma apparente e pronto ad esplodere in qualsiasi momento.