C’era una volta a…Hollywood può essere considerato, come lo stesso Quentin Tarantino ha affermato, l’ultimo tassello di una trilogia, quella cominciata con Inglourious Bastards (2009) e proseguita con Django Unchaneid (2012).
Quentin Tarantino: la narrazione nella sua filmografia
Sì, perché al netto dei mutamenti di tono – in riferimento al ritmo, all’azione, all’umorismo tagliente, al lato sanguinolento e quant’altro – che senz’altro tratteggiano un film diverso, con un respiro più disteso e contemplativo, l’ultimo lungometraggio del regista statunitense più venerato evidenzia un’idea di cinema importante, che ancora una volta mette in decisiva connessione la Settima Arte e il Tempo, laddove quest’ultimo, in forma di Storia, viene modificato, redento, salvato.
Un’operazione non molto dissimile, almeno sul piano concettuale, da quella realizzata dal maestro polacco Krzysztof Kieslowski con la sua indimenticabile trilogia dei colori, sebbene il risultato sul piano etico ed estetico apparisse in tutta la sua forza solo nell’ultimo capitolo (Film Rosso).
C’era una volta a Hollywood e l’amore per il Cinema
Tarantino, ancora una volta, parte dal suo amore viscerale, carnale, finanche totalizzante (la sua nostalgia analogica per la pellicola ne è commovente testimonianza) per il cinema, una passione che viene restituita innanzitutto sul piano delle sensazioni e dei ricordi provati dall’uomo, prima ancora che dal regista.
Ecco, allora, che il 1969, l’anno in cui è ambientato il film, costituisce il necessario punto di partenza per rievocare un periodo vissuto in prima persona, fatto degli ultimi western americani, delle serie televisive dell’ABC, di un immaginario che ha attraversato indelebilmente l’autore, facendolo diventare ciò che è. Tarantino ha un rapporto con lo schermo cinematografico assimilabile, traducendolo in termini psicodinamici, a quello che il bambino intrattiene con il volto della madre, che, nella “fase dello specchio”, mutuando la lezione lacaniana, incarna una fase decisiva per la formazione dell’identità (in questo senso non può non tornare alla mente il suggestivo prologo di Persona (1960) di Ingmar Bergman, in cui si vede un ragazzino che con la mano sfiora uno schermo su cui appaiono, appena accennati, i tratti di un viso di donna – la protagonista Liv Ulmann – che raffigurano con potenza esemplare l’eccedenza, per l’appunto, del volto della madre).
C’era una volta a Hollywood: la forza creativa di un periodo unico
Rick Dalton (il sempre efficacissimo Leonardo DiCaprio), un attore di film di serie B che attraversa un difficile momento professionale, allora, rappresenta un’umanità legata a un momento storico e cinematografico irripetibile, irrimediabilmente perduto.
La forza creativa che caratterizzava quell’epoca, in cui il cinema era realizzato da maestranze capaci di costruire atmosfere, immaginari e sensazioni straordinari, in perfetta sintonia con l’ideale della logica poetica della fabbrica dei sogni, si è drammaticamente impoverita con l’avvento del digitale, freddo e disumano, decorativo e standardizzante.
Tarantino loda apertamente, in questo senso, la genialità del cinema italiano, che seppe rivisitare, rivitalizzandoli, quei generi gloriosi che stavano appassendo negli Stati Uniti. Leone, Corbucci, Tessari e Sollima vengono ricordati con amore durante il film, proprio per elogiarne l’inventiva e la passione.
Ma c’è dell’altro in questo C’era una volta a…Hollywood.
Il sogno alla Kerouac
Nel mettere in scena la vicenda di Sharon Tate (Margot Robbie), magnifica attrice, nonché moglie del grande Roman Polanski, il regista non risparmia critiche sferzanti alla cultura hippie di quegli anni. Il sogno alla Kerouac viene più volte minimizzato, ma non in sé, piuttosto in riferimento alla ricezione che si diffuse negli Stati Uniti.
Vedendo alcuni passaggi abbastanza impietosi, in questo senso, del film, non può non venire in mente, per comparazione, quanto, in netta controtendenza rispetto alla retorica dell’epoca, espresse Pier Paolo Pasolini nei confronti dei manifestanti che si scontravano con le forze dell’ordine. Insomma, sia gli hippie d’America che i ribelli d’Europa erano accomunati dal peccato originale – utilizzando il linguaggio provocatorio del poeta – di appartenere a una borghesia senz’altro più colpevole delle forme del Potere (i poliziotti, i veri proletari) contro cui si scagliava.
Tale contraddizione prende corpo anche nella dialettica che si instaura tra Dalton e il suo doppio, Cliff Booth (un serafico Brad Pitt, premio Oscar come non protagonista) laddove quest’ultimo incarna, in un certo senso, l’ombra del primo, la sua cattiva coscienza.
Sebbene intrattenga un rapporto d’amicizia con Dalton che lo pone, teoricamente, al suo stesso livello, quando finisce il turno di lavoro Booth torna nella sua fatiscente roulotte, squattrinato, dimenticato, emarginato, senza che il suo “padrone” faccia alcunché di concreto per migliorarne il tenore di vita; anzi, quando i cambiamenti glielo impongono, l’attore non esita a dare il benservito al probo aiutante, il quale, comunque, gli dimostrerà fedeltà fino all’ultimo.
Infine, la questione della cronaca in riferimento a Sharon Tate. Senza entrare nel dettaglio, ci si limita a confermare quanto premesso, ovvero che il cinema di Tarantino salva, redime e trasfigura, finanche retroattivamente, con uno sguardo pieno di Grazia che riformula la narrazione della Storia. Certo, come lo stesso regista ha affermato:
“Il cinema non può cambiare la Storia, ma può influenzarla”,
ovvero, può innescare un torsione etica sul versante della fruizione (lo spettatore), invitando a riposizionarci, a rivisitare quanto si è cristallizzato in fatti, per proiettarci nel futuro con un nuovo slancio e una nuova speranza.
Luca Biscontini