Non è da oggi che il cinema indie – e non solo, si pensi a certo cinema del nord Europa o a un come – si è preso la briga di restituire al genere horror la sua vocazione e cioè di mettere a disagio lo spettatore, portando sullo schermo le sue paure più recondite. Alla pari dei vari David Robert Mitchell e Robert Eggers, quello di Ari Aster è un cinema che mette in scena inquietudini ancestrali radicate nella natura stessa della nazione americana e nella fede indefessa nell’istituzione famigliare, spesso al centro, e non a caso, di attacchi e di critiche da parte di quel cinema non allineato che, diversamente dal modello hollywoodiano, propongono gli autori in questione. Nello specifico Midsommar – il villaggio dei dannati comincia laddove era finito Hereditary e cioè dalla disintegrazione del nucleo famigliare e dall’inversione di segno dello spazio casalingo, destinato di lì a poco a perdere le prerogative abituali per diventare – nel corso della vicenda – ricettacolo delle peggiori insidie. Un preludio importante, questo, non solo per stabilire il clima del film, immerso in un’atmosfera di dissoluzione e di perdita, ma anche per indirizzare il sottotesto della narrazione, sviluppato come estensione del desiderio di Dani (Florence Pugh), unica superstite dell’eccidio, di recuperare il tempo perduto e, dunque, di trovare il surrogato umano capace di colmare la recente perdita. In questo senso, l’idea della protagonista di seguire gioco forza il fidanzato in un viaggio studio in Svezia, soggiornando nel villaggio di cui è originario uno degli amici del ragazzo, diventa con il passare dei minuti il presupposto per riprendere il discorso interrotto, facendo dei membri della comunità il corrispettivo fraterno e amicale in grado di sostituire l’esemplare mancante.
Segnato da una circolarità che lo induce a ritornare su se stesso, il cinema di Aster più che raccontare i fatti ne prefigura l’abisso che portano in seno. Spesso le scene dei suoi film, e dunque anche questo, costruiscono quadri in cui l’armonia generale della composizione – favorita dai rituali che scandiscono la socialità di quel paese – deve fare i conti con una messinscena che, nel far percepire la sua perfezione, suggerisce l’artificialità di ciò che si sta guardando. La teatralità delle inquadrature, l’assenza dei rumori naturali, la fissità della figure umane e soprattutto il continuo andirivieni tra sonno e veglia o, se si vuole, tra conscio e inconscio – segnalato dalle carrellate che dall’interno degli edifici conducono allo spazio esterno e viceversa -, sono le forme utilizzate dal regista per annunciare la venuta del male. Che poi Midsommar – il villaggio dei dannati, nel raccontare la costituzione di una nuova civiltà (o le storture di quella “vecchia”), si rifaccia alle ossessioni e ai paradigmi tipici della caccia alle streghe, frutto dell’esasperata ortodossia dei padri fondatori, è cosa meno rilevante. A contare è il come attraverso cui Aster racconta la storia. Appartiene a questo l’attenzione alla performance degli attori e, in particolare, a quella della Pugh che, nei panni di Dani, si propone come una delle interpreti più brave viste in questa stagione. Il piano sequenza iniziale con cui il regista ne riprende il pianto sul punto di sgorgarle dagli occhi è l’evidenza di una prova difficile da trovare a queste latitudini. Raro caso di opera seconda riuscita meglio della prima, il film di Aster è di quelli destinati a vivere nell’immaginazione dello spettatore.