“Jackie” è un film biografico del 2016 diretto da Pablo Larraín, incentrato sulla First lady Jacqueline Bouvier, interpretata da Natalie Portman. Il film, presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura e ha ricevuto tre candidature ai Premi Oscar nella categoria Miglior colonna sonora, Migliori costumi e Miglior attrice protagonista a Natalie Portman. Ritratto di una donna al tempo stesso iconica e misteriosa, Jackie conta sulla direzione della fotografia di Stéphane Fontaine, le scenografie di Jean Rabasse, i costumi di Madeline Fontaine, le musiche di Mica Levi e la produzione esecutiva (tra gli altri) di Darren Aronofsky. Con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt.
Sinossi
Il film segue le vicende di Jacqueline Bouvier ai tempi in cui era stata first lady alla Casa Bianca, attraverso una famosa intervista, raccontata al giornalista Theodore H. White della rivista Life, una settimana dopo l’assassinio di suo marito, il presidente John F. Kennedy, avvenuto nel 1963 a Dallas in Texas.
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La macchina da presa di Pablo Larraín tallona da dietro, con un carrello lento e incisivo, la figura di Jackie/Portman che si aggira sconvolta, al punto da non avere più parole da proferire, tra le spoglie stanze della Casa Bianca, la dimora in cui viveva con il marito/presidente. La sede per eccellenza del potere, attraverso l’occhio del regista cileno, viene incredibilmente trasfigurata, laddove, anziché rappresentare la stanza dei bottoni il cui accesso è negato agli sguardi ‘profani’, assume una connotazione completamente diversa, divenendo, innanzitutto e per lo più, lo spazio dell’incontro tra due soggetti ‘fedeli’ all’amore che li aveva legati. E allora l’assenza di John Kennedy, dell’uomo-marito-padre, diviene ingombrante come un macigno; la sua figura, seppur costantemente fuori campo, si materializza in ogni inquadratura, come se il profilmico fosse stato elaborato proprio per far spazio a una fantasmatica presenza che chiede disperatamente di non essere inghiottita dall’oblio.
La bellissima messa in scena di Larraín esorta lo spettatore a riflettere sul rapporto tra Storia e Vita, su come questi due termini così antitetici possano entrare in un rapporto dialettico fruttuoso che dia corpo a un ordine simbolico nuovo, all’interno del quale innescare i processi di soggettivazione di domani. Questa, a parere dello scrivente, è la questione centrale dell’ultimo film dell’ingegnoso autore, il quale, crediamo, non si sarebbe sobbarcato il compito di realizzare un film biografico se non fosse stato ispirato da un’ambizione più alta, che davvero lo stimolasse.
Lo sguardo di Jackie: Larraín entra ed esce dai suoi occhi, con un movimento che oscilla forsennatamente tra il soggettivo e l’oggettivo, cortocircuitando, in tal modo, la rappresentazione; è come se assistessimo a un continuo passaggio (o concomitanza) tra un gesto che trasfigura e un altro che, contemporaneamente, simbolizza. Una staffetta senza sosta tra Storia e Vita, in cui, in un certo senso, alla fine, la dialettica viene soppiantata da un piano d’immanenza dove si ‘srotola’ magnificamente una ‘gioiosa’ indiscernibilità: dove (quando) finisce la Vita e dove (quando) comincia la Storia? Siamo posti di fronte all’originaria scissione del tempo, in cronologico e non (kronos e aion), e l’occhio di Larraín si ostina a guardare nel punto esatto in cui la fluidità del tempo si irrigidisce nella compattezza di un cristallo. Ancora una volta, dunque, dopo lo straordinario Neruda, il regista si produce in un gesto titanico che mentre dà corpo all’immagine al tempo stesso costituisce un discorso su di essa, producendo una sorta di saggio visivo che necessita della più viva attenzione, pena la perdita di tutta la sua ricchezza teorica ed estetica.
Seguendo le suggestioni del Tarkovskij più ispirato, quello, per intenderci, che cercava con il cinema di ‘scolpire il tempo’ (cosa che fecero anche altri grandissimi, Orson Welles su tutti, con Citizen Kane), Larraín dimostra di essere costantemente mosso dall’intento di giungere al cuore di alcune urgenti questioni estetiche, in riferimento in particolare al problema della rappresentazione e al superamento di essa, operazione che può essere realizzata solo se si possiede una batteria concettuale attraverso cui mettere in crisi le categorie che impongono la tirannia dell’intenzionalità (la quale vorrebbe riportare ogni cosa all’interno dello spettro del visibile). Infatti, pare segnalarci giustamente Larraín, non si può rilanciare ad libitum, come fa tanto cinema contemporaneo, tentando di alzare volgarmente l’asticella del visibile, si tratta, semmai, del contrario, ovvero di far sprofondare il visibile nell’invisibile, trasfigurando e riformando l’ordine simbolico.
Un altro capolavoro, insomma, questo Jackie, che sarebbe un peccato mortale lasciarsi sfuggire. Natalie Portman, poi, è talmente brava che, a tratti, risulta anche irritante (si perdoni la boutade): la sua dizione lenta, la monotonia ostinata dell’etimo, che riproduce quella della moglie del presidente, è davvero un attentato al linguaggio, di cui fa emergere l’inconsistenza, laddove non di rado il senso delle parole pare quasi scemare, trascinato via da una piattezza timbrica che contesta senza sosta il primato del significato, in favore dell’emersione del significante. Difficile, dunque, frenare l’entusiasmo per l’ennesima, eccellente prova del regista cileno.