La più bella serata della mia vita di Ettore Scola, con Alberto Sordi
La più bella serata della mia vita è un film ben costruito, godibile da cima a fondo, grazie alla perizia con cui Scola e Amidei radunano tutti i motivi grotteschi di Durrenmatt, e le sue punte satiriche, adattandoli al personaggio di un Alberto Sordi benpensante, ruffiano e bugiardo. Opera di stampo teatrale, ma infiorata di spunti deliziosi
In seconda serata su La7 alle 23,30 La più bella serata della mia vita, un film del 1972 diretto da Ettore Scola e interpretato da Alberto Sordi. Il film è liberamente tratto dal romanzo La panne. Una storia ancora possibile di Friedrich Dürrenmatt, da cui è stato tratto anche un adattamento teatrale. Sceneggiato da Ettore Scola e Sergio Amidei, con le musiche di Armando Trovajoli e il montaggio di Raimondo Crociani, il film è interpretato da Alberto Sordi, Michel Simon, Charles Vanel, Claude Dauphin, Pierre Brasseur. La più bella serata della mia vita è stato girato all’interno del Castello di Tures (in Italia, in provincia di Bolzano).
Sinossi
L’industriale italiano Alfredo Rossi si trova in Svizzera per depositare illegalmente un’ingente somma in una banca del luogo. La banca è chiusa, e non trovando alberghi aperti, ottiene ospitalità in un castello, presso quattro magistrati in pensione. Questi imbastiscono, un po’ per scherzo, un po’ no, un finto processo a carico di Rossi, colpevole di aver ucciso il suo predecessore nell’azienda.
A far da canovaccio ad uno dei migliori e più sottovalutati film di Ettore Scola c’è il racconto Le panne. Curioso che due sceneggiatori di ferro come lo stesso Scola e Sergio Amidei si siano affidati a una storia strutturata già di per sé in maniera robusta e architettata con ingegnosa originalità. L’origine, dunque, è importante: l’obiettivo era quello di non sciupare un’occasione gustosa. L’operazione può considerarsi riuscita per vari motivi. Innanzitutto, la sceneggiatura si preserva grazie all’attenta regia di Scola, che ha saputo raggiungere i compromessi necessari tra esigenze autoriali e istanze di messinscena. Poi la direzione degli attori, indubbiamente efficace (doppiaggio permettendo); misurato con intelligenza e forse intimorito, Alberto Sordi mette a segno uno dei caratteri più ambigui e interessanti della sua invidiabile galleria. Il suo Alfredo Rossi (guarda caso un nome composto dallo stesso numero di lettere del suo vero nome) è un concentrato di italianità da esportazione non stucchevole e per niente stereotipata: non è un classico pizza-spaghetti-mafia, ma uno che si è fatto da solo, a cui piacciono le donne e si vanta del suo tanto che in realtà è niente (un materialismo sfrenato generato dal boom disgregante). È l’incarnazione di cui Amidei e Scola si servono per proseguire la critica sociale sul borghese che continuerà col personaggio di Vittorio Gassman nel successivo capolavoro di Scola, C’eravamo tanto amati(attenti alla macchina, il cimitero delle auto scassate in cui appare Giovanna Ralli di fronte all’incredulo Gassman, la morte che parla): gli autori detestano e al contempo compatiscono il loro piccolo uomo, lo innalzano a italiano medio che più medio non si può, ne disegnano il carattere con sapido e nascosto cinismo. Senza dimenticare le quattro vecchie volpi del cinema d’oltralpe, che rappresentano ogni lato della Giustizia (sia il risvolto più ovvio, quello “serio” e “pedante”, e sia quello meno scontato della spettacolarizzazione della loro azione). Il processo che i quattro vegliardi signori annoiati mettono su è un divertissement senza via di fuga, il cui epilogo non è ben definito: fin dove arriva lo scherzo, la messinscena della pubblica accusa e della difesa, il giudizio della corte e tutto ciò che ne segue? Si potrebbe liquidare la faccenda con poche parole: troppo vino – ma, difatti, quanto ne bevono i cinque commensali? Perché solo Sordi ne lamenta l’abbondanza? Perché gli altri subiscono l’alcool attraverso la narcisistica esaltazione della loro arte oratoria? Chissà fino a che punto involontariamente, La più bella serata della mia vita(che apparentemente può apparire come un titolo banale e buonista, ma in realtà assai acre e pari ad uno sghignazzo) è un film inquietante? Arrivati alla sentenza di condanna, non si capisce bene se i quattro scherzino o meno. Si svelano, ammettono la burla, e tutti felici e contenti. Ma poi c’è il sogno onirico di Sordi, virato a seppia, in cui si esegue la pena di morte con luciferina esibizione: l’incubo è abitato dai personaggi che hanno fino a quel momento accompagnato il protagonista nella sua bizzarra avventura, compresa la ragazza in moto che lo spinge nei territori deserti prossimi al castello in cui si svolge la vicenda. Al risveglio varie sorprese e un finale da infarto. Pare che Scola e Amidei abbiano voluto trovare la scorciatoia per stanare la storia, risolverla nel modo più lieto possibile: non illudetevi. Film agro e spiritato, sottilmente inquietante, perché non rivela immediatamente tutto ciò che dice di proporsi. Nasconde fino all’ultimo la sua natura, gioca prima le carte della commedia brillante per riservarsi nel finale quelle della buffa e patetica tragedia. E alla fine non lascia sereni. Restaurato nel 2014, ne è stato recuperato un finale alternativo, più esplicativo e forse moralista.