La corte (L’Hermine), un film del 2015 diretto da Christian Vincent, con Fabrice Luchini, Sidse Babett Knudsen, Eva Lallier, Miss Ming, Berenice Sand. Con la direzione della fotografia di Laurent Dailland, le scenografie di Patrick Durand, i costumi di Carole Gérard e le musiche di Claire Denamur, La corte conta sulle interpretazioni di Fabrice Luchini (coppa Volpi al festival di Venezia 2015 per il ruolo) e di Sidse Babett Knudsen, impegnati rispettivamente nei panni di Michel e Ditte. Il regista ha affermato: «La corte nasce dal desiderio di tornare a lavorare con Fabrice Luchini dopo 25 anni. Parlando con il mio produttore, appassionato di casi giudiziari, abbiamo pensato alla storia del presidente di una Corte d’Assise, vestito di rosso e con il colletto di ermellino, e vedevamo Fabrice nella parte. Non conoscevo però nulla dell’universo giudiziario e ho di conseguenza iniziato a frequentare le aule di tribunale. Ho scoperto così che il tribunale in fondo è come un piccolo teatro, con il suo pubblico, i suoi attori, la sua drammaticità e il suo dietro le quinte. Nello scrivere le caratteristiche del protagonista ho tenuto in mente l’immagine del personaggio di Christine in La regola del gioco di Jean Renoir».
Sinossi
Michel Racine è il temuto Presidente di una corte di assise. È molto severo con se stesso e con gli altri. È soprannominato il giudice a due cifre, perchè le sue condanne non sono mai inferiori a dieci anni. Ma ogni cosa viene sconvolta dalla comparsa di una donna, Ditte Lorensen – Coteret. Fa parte della giuria in un processo per omicidio. Sei anni prima, Racine si era innamorato di lei. Quasi in segreto. E lei l’unica donna che abbia mai amato.
La recensione di Taxi Drivers (Luca Biscontini)
Fabrice Luchini, vincitore del premio come miglior attore alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, regala una prestazione solida, asciutta, convincente, interpretando un integerrimo Presidente di una corte d’assise, che si ritrova, insieme a una schiera di giurati, a dovere decidere le sorti di un giovane uomo sospettato di aver ucciso a colpi di anfibi la piccola figlia di sette mesi. Michel Racine (Fabrice Luchini) – il cognome è un omaggio al celebre commediografo francese – al di fuori del suo ruolo istituzionale è un uomo misero, vive in una stanza d’albergo, e solo quando indossa la toga porporata riesce ad acquisire quel senso di cui fatalmente difetta nella vita privata.
Christian Vincent, che ha scritto e diretto il film, realizza un’opera assai efficace che, con umiltà, allude a questioni decisive, quali, nella fattispecie, il rapporto che riusciamo a intrattenere con la Verità, attraverso il linguaggio. Il tentativo del processo giudiziario di ricostruire ciò che effettivamente avvenne il giorno dell’uccisione della piccola vittima, e di stabilire chi è il colpevole, si scontra con l’intricata trama che la Parola, cercando di evocare il passato, inevitabilmente tesse, occultando, paradossalmente, ciò che vorrebbe svelare. Assai significativa in tal senso è la sequenza in cui il giudice mette in guardia i giurati, affermando che un processo non può ristabilire la Verità, ma, in ultima analisi, cerca solo di far rispettare i principi della Legge: rispetto all’infinità e globalità di un Evento non siamo che operatori locali e finiti che, attraverso dei ‘sondaggi’, cercano eroicamente di segnarne la traccia. Un uomo, un giudice, non possiede, nonostante gli sia riconosciuta dalla legge, la facoltà di ricostruire la trama dei fatti, può solo fare delle supposizioni sulla base delle prove acquisite per cercare di emettere una sentenza che renda giustizia. Ma per l’appunto è proprio questo l’equivoco che si vuole scongiurare: la Giustizia non equivale alla Verità. Vincent per preparare il film ha seguito l’andamento di diversi processi e ha amalgamato armoniosamente questa esperienza con quella letteratura (e filosofia) che si è confrontata con tali questioni.
È solo a partire dalla solenne ammissione dell’insufficienza della Ragione che il protagonista riesce a far breccia nel cuore di un suo vecchio amore che casualmente rincontra, in quanto facente parte della giuria popolare. Si ritrovano furtivamente in alcuni bistrot, e goffamente il giudice tenta di corteggiarla, ma sempre con garbo e profondo rispetto, cercando di farle capire il disperato bisogno d’amore che lo attanaglia. Luchini è bravissimo nel rendere l’ambivalenza del suo personaggio, austero e temuto in tribunale, maldestro e disorientato al di fuori, una scissione, la sua, che tiene conto della difficoltà di aderire a un mondo sempre più frammentato, che però può essere ‘miracolosamente’ ricomposto grazie a un incontro, a un amore che redime e che apre le porte proprio a quella Verità di cui si è continuamente alla ricerca.
Il Presidente della corte d’assise emette la tanto attesa sentenza (che non sveliamo) e, come prassi, inizia un nuovo processo. A questo punto la macchina da presa indugia sulla ex fiamma del probo giudice che indossa quel vestitino di pizzo color carne che aveva anche quando si prese cura di lui in ospedale molti anni prima. L’amore si manifesta, prende corpo in quanto fenomeno, e lo spettatore ne fa esperienza sommessamente, attraverso una narrazione anti-spettacolare, che rifiuta i luoghi comuni, non scivolando mai in un bolso sentimentalismo. Michel Racine, col suo modo di fare contenuto, ricorda quel quadro di Matisse in cui un severo uomo di nero vestito porta una piccola macchia di rosso proprio all’altezza del cuore. È questo contrasto nel suo personaggio che libera la poeticità che lo pervade, e di cui facciamo esperienza senza strepito. Un film quasi perfetto, dunque, in cui alla riflessione su questioni decisive si aggiunge un’elaborazione dell’emotività che arriva senza fronzoli al cuore di chi guarda. Per questo, e per tutti gli altri motivi suddetti, ne consigliamo caldamente la visione.