I giorni contati, un film del 1962 diretto da Elio Petri. Di carattere neorealista, la pellicola è considerata tra le massime espressioni del cinema di Petri e offre in assoluto una delle migliori interpretazioni di Salvo Randone. A questo secondo film di Petri non sono estranee esperienze autobiografiche: anche il padre del regista a 50 anni aveva lasciato il lavoro. Evidente, in un film che tratta di quotidiana alienazione, costruito su di un lungo pedinamento del protagonista con riprese (anche a mano) di una macchina mobile e curiosa, in set reali, sorpresi nella loro prosaica quotidianità, il debito con la Nouvelle Vague. La descrizione di uno sbandamento esistenziale trova il sostegno della fotografia di Ennio Guarnieri, in particolare nella sovraesposizione delle riprese alla luce del giorno, con effetti di abbagliamento e insostenibilità sul protagonista (ad. es. all’uscita dal tram in cui è morto il passeggero o negli stabilimenti balneari). Sceneggiato da Elio Petri, Carlo Romano e Tonino Guerra, con il montaggio di Ruggero Mastroianni e la fotografia di Ennio Guarnieri, I giorni contati è interpretato da Salvo Randone, Paolo Ferrari, Vittorio Caprioli, Lando Buzzanca, Regina Bianchi, Franco Sportelli.
Sinossi
Cesare è un idraulico cinquantacinquenne, vedovo. Visto morire un coetaneo, Cesare diventa conscio che la morte potrebbe colpire anche lui. Decide così di lasciare il lavoro e godersi quel che gli resta da vivere. Ma è inutile rincorrere la giovinezza ormai passata, coltivare speranze che si risolvono in altrettante delusioni: per sconfiggere la disperazione e la solitudine non gli resta che tornare al lavoro.
Elio Petri: «Il mio film è una protesta contro l’ossessione della vita moderna: tutti corrono, s’affannano, hanno fretta, una fretta di arrivare, ma a che cosa? A una triste vecchiaia carica di rimpianti per ciò che si è sacrificato e perduto.»
Cesare Conversi, stagnaro, si trova a riflettere sulla propria vita, dopo aver casualmente assistito all’improvvisa morte di uno sconosciuto, pressappoco suo coetaneo, sull’autobus. Vedovo da tempo, Conversi vive da solo in una camera a pensione; ha un figlio che però va a trovarlo soltanto quando ha bisogno di soldi, usando come arma il nipotino. La riflessione cui è spinto l’uomo a seguito della morte dello sconosciuto verte sul senso stesso della vita e, non riuscendo a trovare delle risposte, Conversi lascia il lavoro e comincia a vagare per la città. A quel punto, il film di Elio Petri assume un andamento quasi da partitura jazz, non dissimilmente da alcune coeve prove della Nouvelle Vague o di John Cassavetes. Il protagonista cerca una vecchia fiamma, torna al paesello d’origine, si aggrega ad un «impiccio» per spillare soldi all’azienda dei trasporti. In questo Cesare Conversi la riflessione sulla vita, condizionata da una sopravvenuta ossessione della morte, è consapevole e impellente, ma al tempo stesso anche irrequieta. Cesare domanda al medico quando morirà e gli confessa la propria paura del cancro, anche se contemporaneamente continua a fumare trenta sigarette al giorno. Il nostro stagnaro si pone domande per le quali risposte certe non ci sono e non pensa nemmeno lontanamente di poter trovare quelle risposte grazie a Dio o alla religione. Diversamente da Ingmar Bergman, Petri, attraverso il personaggio di Cesare, non si pone il problema del silenzio di Dio: caso mai, ritiene che l’uomo del nostro (del suo) tempo possa trovare brevi attimi di serenità nel ritorno a un periodo della vita nella quale la morte è un pensiero lontano, come sembrano dimostrare la sequenza della corsa in vespa dietro all’automezzo dei pompieri, il prestito di cinquantamila lire che il protagonista fa alla figlia della sua affittacamere e il fatto che quando Cesare incontra Giulia (la sua ex) la porta al cinema. Sull’arte in generale, come mezzo per esorcizzare la paura della morte, invece, Petri non sembra nutrire eccessiva fiducia, anche perché spesso i critici, con riferimenti fin troppo intellettualistici (si pensi anche al personaggio del “professore”, interpretato da Vittorio Caprioli), ne tengono lontano l’uomo comune, il quale pure ne avverte la fascinazione. A questo uomo comune, qui degnamente rappresentato da Cesare Conversi, non resta che sospendere il giudizio e riprendere a lavorare, attività che ha almeno il pregio di non consentire di pensare troppo. I giorni contati è il primo capolavoro di Elio Petri, che si vale, per le sue partiture, di uno strumento eccezionale come Salvo Randone, un interprete che dimostra come si muovono gli interrogativi di sempre anche attraverso i simboli della modernità e che avrebbe potuto reggere un intero film anche recitando da solo.