Basterebbero le premesse e i primi minuti di Raccolto amaro, con quelle immagini di una terra incontaminata, quasi fiabesca, di colpo invasa e occupata da una malvagia potenza straniera, per farci capire come persino il più nobile degli intenti non basti da solo a fare di un film qualcosa degno di interesse. Perché nel rimettere in scena una delle più oscure e dimenticate (e, ancora oggi, dibattute) pagine della storia dell’Unione Sovietica – il così detto Holodomor (“sterminio per fame”), la carestia che, come conseguenza della consapevole e scellerata politica staliniana, colpì l’Ucraina tra il 1932 e il 1933 – il regista George Mendeluk (cresciuto in Canada ma di origini ucraine) sceglie la strada del melodramma di stampo hollywoodiano, caricando i fatti storici (la collettivizzazione forzata delle terre e la repressione violenta di ogni forma di opposizione, fino alla confisca quasi totale di beni e scorte alimentari) di una pesante dose di retorica e, soprattutto, di una storia d’amore, quella tra i contadini Yuri (Max Irons) e Natalka (Samantha Barks), abusata e zeppa di tutti i luoghi comuni del caso.
Guardando a esempi come Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella, Mendeluk compone così un affresco fatto di facili simbolismi (i cavalli che corrono liberi) e sprazzi onirici e fiabeschi (l’incipit tra boschi e riti ancestrali), ignorando qualsiasi problematicità o chiaroscuro in favore dell’esaltazione dello spirito di un popolo indomito e guerriero i cui echi, indubbiamente, si riverberano ancora sul presente e su una situazione politica tutt’altro che semplice. Eppure, in una storia tanto attenta al dramma e alla sofferenza di un’intera nazione, è proprio il coinvolgimento emotivo che pare mancare, assente com’è da un film che sembra voler muovere, in ogni sequenza, alla commozione, ma che, pur sorretto da un cast di livello (tra gli interpreti anche Terence Stamp e Barry Pepper), non riesce a creare empatia, freddo, bidimensionale e stereotipato come i suoi amanti sfortunati e in balia della Storia.
E mentre Yuri, tra mille peripezie, vive la sua personale Odissea, in una corsa contro il tempo per tornare al paese da sua moglie (nel frattempo insediata, ovviamente, da uno spietato ufficiale sovietico), il dramma, quello vero, resta ai margini dell’inquadratura, più nel non detto e nel suggerito che nelle decine di cadaveri disseminati lungo la pellicola, in riferimenti e (rari) dati storici troppo spesso messi da parte in favore di uno spettacolo di derivazione quasi televisiva, tanto nell’estetica quanto nei contenuti. È così che anche l’epica e la vocazione da racconto corale naufragano nelle pieghe di una Storia troppo grande e complessa per essere raccontata da un regista così preso dalle sue immagini (an)estetizzanti e da un rinnovato fervore patriottico da perdere di vista la visione d’insieme, il valore storico di un dramma che meriterebbe tutt’altra sensibilità.