Nevermind: intervista al regista del film, Eros Puglielli
Suddiviso in capitoli destinati a incrociarsi nella maniera meno prevedibile, Nevermind racconta la condizione umana e il non senso della vita con toni surreali e grotteschi, ma non per questo meno tragici. Nel farlo Eros Puglielli ci mette la predilezione per il cinema di genere, l'amore per i suoi personaggi e la particolarità di uno sguardo originale e indipendente. Del film e di altro abbiamo parlato con il regista alla vigilia dell'uscita nelle sale
Nevermind mi pare sia un invito a non prendere le cose troppo sul serio per evitare di preoccuparsi ancora di più. Inoltre, la sua scelta va incontro alla forma del film che trasfigura il dramma dei personaggi in una chiave grottesca, comica e surreale, attraverso la quale si arriva persino a ridere delle disgrazie dei protagonisti.
Come dici, è un invito. I personaggi di questo film si preoccupano molto e nel farlo cadono in una ragnatela che è più grande del problema vero o apparente. È un invito a non prendere troppo sul serio non solo le cose che si vedono nel film ma, più in generale, quelle di cui è piena la nostra esistenza. Ciò che sta dietro a Nevermindè il racconto della condizione umana, il trovarsi all’interno di un universo sconosciuto e incomprensibile a cui cerchiamo inutilmente di dare un senso. Questo rende la nostra condizione affannosa e affannata.
In realtà, tu racconti il non senso della vita perché alla fine non sappiamo quali siano le cause che conducono al dramma. Questo spalanca la narrazione all’indicibile mistero dell’esistenza.
O, almeno, a un non senso rispetto alle nostre aspettative, ai nostri schemi. Abbiamo bisogno di vedere tornare le cose secondo le nostre logiche. Magari ne hanno una loro, ma di certo non è antropocentrica (ride, ndr).
La vena surreale e il tono grottesca sono costanti poetiche sempre presenti nei tuoi film. Più che un’arma per esorcizzare la realtà sono uno strumento di indagine, una sorta di lente di ingrandimento capace di renderne più visibili i meccanismi.
Si, c’è la funzione catartica, data dalla condizione di stare tutti sulla stessa barca. Tutti ci siamo trovati più o meno nelle condizioni dei personaggi: da qui la ricerca del contatto con lo spettatore, a cui diciamo che in fondo siamo tutti umani e, dunque, siamo tutti in queste condizioni. Uno dei protagonisti – quello di Giulia Michelini – dice una frase chiave affermando che nessuno sa in realtà ciò che sta facendo. Questo appartiene sia alle persone che hanno fatto il film che a quelle che lo guarderanno.
La frase appena citata mi ha ricordato l’esistenzialismo che muoveva Ombre e nebbia di Woody Allen, in cui il protagonista vaga per il paese in sommossa non sapendo cosa fare e soprattutto con quale delle fazioni unirsi. Non capisce cosa succede ma, allo stesso tempo, sente comunque il bisogno di condividere il girare a vuoto degli altri. Succede la stessa cosa ai personaggi del film.
È assolutamente così! Pensa anche a A Serious Man dei fratelli Coen e a quel bellissimo monologo in cui non si sa veramente dove sia il problema. Ti aspetti sempre qualcosa, ma il grattacapo è poi un altro, se poi tale si rivela perché non sempre è così. La ricerca di chiavi di lettura antropocentriche o antropocentrate creano un’ansia di base. Da qui Nevermind come tentativo di proteggersi dalle conseguenze di questo processo mentale.
Questo procedere senza una meta precisa appartiene anche alla struttura narrativa che spiazza di continuo lo spettatore, inducendolo a credere che a essere protagonista sia un determinato personaggio in seguito sostituito da un altro che prima recitava una parte secondaria. Succede per esempio allo Chef, impersonato da Andrea Sartoretti, che da ruolo minore finisce per essere il mattatore dell’episodio più lungo del film.
Si, direi di si. L’ultimo episodio rappresenta la parte pirotecnica del film, quella più esplosiva, che però non manca di riproporre gli stessi temi degli altri episodi. Comunque si, c’è una struttura del genere che, nella sua anomalia, costringere lo spettatore a trovare il bandolo della matassa.
Il film è presentato come un racconto composto da diversi episodi, ma anche in questo caso non si tratta di una struttura schematica, perché, per esempio, la durata delle singole microstorie è variabile e poi ci si arriva con passaggi introdotti dagli stessi personaggi che si incrociano scambiandosi il testimone del protagonista.
Un modello molto, ma molto vago, è stato quello de Il fantasma della libertà di Bunuel, in cui si segue una vicenda che sta arrivando al suo clou e, improvvidamente, quella che sembrava una comparsa diventa il protagonista, mentre il centro del discorso va in un’altra direzione. Questo mi è sembrato sempre un atteggiamento narrativo molto sadico ma altrettanto geniale da parte del regista spagnolo. In Nevermind chiaramente non faccio la stessa cosa, però in qualche modo i personaggi secondari di un episodio diventano protagonisti nel successivo. Anche lì, a far capire che siamo sempre sullo stesso mondo e alle prese con le medesime vicissitudini.
E come se la realtà si prendesse la rivincita attraverso la disfunzioni dei personaggi. Il cote formale della borghesia, il suo maniacale controllo nei confronti della realtà deflagra in una serie di tic, manie e ossessioni che impediscono il rapporto con l’altro, portando all’inevitabile frantumazione dell’Io.
Come accade all’impeccabile avvocato del segmento iniziale, il cui scopo nella vita è tutt’altro. Si, certo, è assolutamente così. Non penso sia un sabotaggio del tessuto sociale, ma semplicemente la rappresentazione di ciò che lo compone. Alla fine siamo immersi nella stranezza che è forse il motivo più ricorrente. Non è sempre evidente ma se c’è uno schema di fondo in questo mondo è proprio la stranezza.
Citando il Wilder di A qualcuno piacecaldo, si potrebbe dire che nessuno è perfetto e che la normalità non esiste.
No, è totalmente fuori registro: dagli atteggiamenti dei terapeuti a quelli dei pazienti, per non dire dei tanti professionisti e delle persone ambiziose che controllano e pianificano. Alla fine, ciò che rimane è questa parte di follia, di squilibrio.
Tra le altre cose, Nevermind coglie molto bene uno degli aspetti più ricorrenti della nostra vita quotidiana e cioè le aspettative della performance connesse con il nostro stile di vita. Il film mostra come lo stress derivi dal positivo ritorno delle prestazioni che ognuno di noi è chiamato a fornire in ambito sentimentale e soprattutto lavorativo.
Si, hai colto un aspetto che mi fa molto riflettere. Effettivamente è cosi. La tensione di essere colui che vince, che ha guadagnato, che ha il lavoro prestigioso e non lo deve perdere; da chi è impegnato a conquistare la ragazza a coloro che devono mantenere la propria posizione sociale, tutti si fregano allo stesso modo. Nessuno si guarda intorno perché ciascuno è preso dal proprio delirio. Per questo non capiamo dove ci troviamo e siamo incapaci di assumere atteggiamenti più sani.
Ricorrente nel film è il fatto di avere a che fare con una realtà invisibile o perché sono i personaggi, oppure perché esiste solo nella loro testa. Anche questo concorre a creare l’anomalia che fa impazzire le persone.
Si, perché la storia della condizione umana penso risieda lì. Non hai possibilità di una visione che ti porti alla comprensione delle cose, perciò a fermarci sempre sulla linea delle ombre e della nebbia, per tornare ad Allen. Non avendo questo sguardo, non capisci assolutamente nulla di quello che stai facendo, di quello che sta accadendo, non si comprende cosa muove le cose, se c’è qualcosa che lo fa; a rimanere insondabile è il loro senso e dove vanno a finire. Avevamo in mente più episodi di quelli che abbiamo realizzato. Un giorno, se per qualche motivo dovessi proseguire questa avventura con un sequel potrei farlo con assoluta serenità perché anche quelli non scelti erano su questa linea: in alcuni dall’inizio alla fine non capivi il problema. C’era qualcosa che non andava, eppure tu non capivi mai quale fosse il difetto. Questo, nonostante la storia si muovesse sempre attraverso dei meccanismi circostanziali che costituivano il centro della narrazione.
La natura dell’argomento, per sua naturale reticenza ancora prima della tua messinscena, fa di Nevermind un’operazione coraggiosa in un’epoca dove tutto è scritto e, soprattutto, mostrato.
È il compito del cinema indipendente quello di fare questo tipo di cose. Poi, c’è sempre tempo per essere didascalici. C’è la televisione, c’è il cinema molto popolare. Detto ciò, questo film non ha problemi di comunicazione perché, essendo a suo modo molto catartico, induce chiunque lo veda a ritrovarvisi.
Esatto, l’empatia è una delle sue caratteristiche.
La finalità è proprio quella dell’empatia, perché alla fine tutti si riconoscono nello sconcerto dei personaggi e nelle circostanze in cui esso si produce.
Ci riconosciamo nei personaggi, così come nel clima frenetico delle loro giornate. Li vediamo sempre in movimento, pronti a consumarsi nella rincorsa verso una meta inesistente.
Sempre sotto pressione, che è il modo migliore per non guardarsi veramente intorno, per mancare le vere soluzioni.
Le immagini contribuiscono a raccontare la storia. In particolare, volevo soffermarmi sull’uso del campo lungo che qui come altrove ha un doppio significato: serve a rappresentare con maggiore evidenza l’isolamento dei personaggi, resi ancora più piccoli dall’estensione extra large del paesaggio in cui sono immersi. Ma è anche un’ancora di salvezza perché permette ai protagonisti di stabilire un legame con il mondo esterno fino a lì escluso da primi piani e dalle inquadrature claustrofobiche. È così?
Si, ho voluto il formato panoramico e le lenti anamorfiche per andare nella direzione di un universo sconosciuto. Allo stesso tempo, me ne sono servito per rendere la deformazione o, se vuoi, l’aberrazione di ciò che è normale. Alterando il campo visivo oltre le possibilità dell’occhio, mi è servito per visualizzare l’impotenza derivata dal non poter esercitare il controllo sulle cose. Le interazioni complesse all’interno dello stesso fotogramma in cui ci sono più cose che accadono, magari in contraddizione tra di loro e poste agli estremi delle inquadrature rimandano a questo aspetto.
Sei un frequentatore di differenti generi cinematografici, per cui ti chiedo che tipo di scelta è la tua, come li interpreti e cosa ti danno in più?
L’esperienza di fare i generi cinematografici permette di arricchirsi linguisticamente di ulteriori strumenti narrativi. Quando parliamo di genere ci riferiamo più alla fantascienza e all’horror e al giallo, però ciò che posso dire è che il thriller e il giallo sono alla base di ogni racconto; anche la commedia ha un fondo di thriller, perché c’è una domanda che deve avere una risposta, e questa risposta ha sempre a che vedere con l’identità, e con la sua ricerca. In realtà, il genere è un fondamento strutturale del nostro modo di vedere, di cui thriller e giallo sono parte fondante. Per me è bello utilizzarlo anche quando faccio il cinema più grottesco, paradossale e surreale, come pure nel momento in cui mi confronto con il genere puro, perché comunque è un tipo di avventura che porta sempre emozioni e molti regali. È un mettersi a disposizione della storia con la propria sensibilità, rendendola efficace e ottenendo effetti consapevoli. L’autore si può nascondere dietro i propri difetti, dicendo che sono voluti perché così si è sentito di fare. Il regista di un thriller, invece, deve fare in modo che lo spettatore salti sulla sedia al minuto tredici, deve creare false piste, procedere con un sacco di operazioni molto sofisticate che hanno a che fare con effetti consapevoli da produrre sul pubblico. Si tratta di un passaggio molto forte. Per me transitare dalle prime opere grottesche e surreali e comunque intrise di elementi di genere a quello propriamente detto è stato rendermi conto di non avere scelta se non quella di realizzare l’effetto in mancanza del quale il film non funzionerà. Paradossalmente, per riuscirci il genere ha bisogno dell’autore e della sua visione, perché lo schema da solo non funziona. Bisogna sempre reinterpretarlo, farlo vivere attraverso uno sguardo particolare sulle cose e una concettualizzazione adeguata. Credo che l’esperienza con il genere puro sia indispensabile per ogni regista.
Parlando dei personaggi, la prima cosa che mi viene da dire è che anche quando sono cattivi i tuoi non riescono ad esserlo fino in fondo per una sorta di ingenuità che alla fine li salva.
Si, sono un po’ patetici. Ci sono anche cattivi un po’ disumani però spesso e, più in generale, i cattivi sono dei personaggi patetici e abbastanza vicino ai protagonisti del mio film in quanto a problematiche mentali.
Te lo chiedevo perché la visione negativa di Nevermind è controbilanciata in positivo dalla presenza di personaggi umani troppo umani.
Si, perché alla fine sono loro il potenziale positivo, gli unici che possono cambiare; sono l’ago della bilancia e quindi rappresentano il segno positivo del film. Nonostante tutto.
Il tuo è un cinema che necessita di grandi attori perché i personaggi sono messi all’interno di una realtà complessa che essi stessi concorrono a creare con la forza della loro immaginazione. Anche il tono tra serio e faceto è ricco di sfumature, di eccessi e di leggerezze che attraversano l’intera gamma emozionale. Quanta importanza hanno per te i tuoi interpreti?
Sono centrali perché l’attore è il personaggio. Soprattutto in film così personali il rapporto diventa intimo e, per quanto mi riguarda, di condivisione della medesima sensazione; il che, tra altre cose, significa di stare in una frequenza precisa in cui gli attori devono essere in grado di entrare almeno per il tempo necessario. È fondamentale. A volte la scelta avviene anche su questo piano, entrando in contatto con delle menti che possono interagire e realizzare qualcosa che non si può spiegare né vedere.
La tua è anche un’opera d’attori, per quello che abbiamo detto e perché davanti alla macchina da presa se ne alternano davvero tanti. Questo vuol dire rapportarsi con metodologie e punti di vista disparati. Come ti sei posto in questa situazione e com’è andata?
Ogni attore ha una sensibilità particolare, però con ognuno di loro c’è stata questa accordatura. Considera che questo film è stato girato in solo 14 giorni, quindi puoi capire che tipo di intesa ci deve essere tra regista e attore per riuscire a raggiungere il risultato in così breve tempo. Io avevo lavorato già con molti di loro, e per esempio con Paolo Sassanelli, con Giulia Michelini, e con molti altri, eccezion fatta per Renato Scarpa, che ho avuto da sempre nel cuore tanto da commuovermi nel momento in cui l’ho avuto sul set. Il fatto di aver lavorato con loro, di avergli scritto delle parti e di aver fatto film televisivi in cui rapidamente devi agganciarti alla storia ha facilitato le cose. Il fatto che Nevermind è talmente diverso dalle altre esperienze fa capire lo straordinario lavoro che sono riusciti a fare.
Hai fatto molte prove prima di iniziare a girare?
No, perché con ognuno di loro c’era una storia. Ho fatto un po’ di prove per Lo zio padre (titolo di uno degli episodi del film, ndr), perché lì ci si affidava molto al dialogo e avevamo pochissimo tempo per girarlo; il lavoro preliminare con gli attori è servito per mettere a punto talune sfumature. Con Andrea Sartoretti abbiamo fatto tutto il percorso del personaggio, focalizzando ogni singola fase. Si è trattato di un lavoro rapidissimo e molto efficace. Di Giulia conoscevo l’approccio istintivo, per cui abbiamo lavorato soprattutto su quello, e lì, con il contatto tra attrice e regista, ci si avvicina in fretta all’obiettivo.
A proposito di Giulia Michelini. Lei è una di quelle attrici capaci di far passare in secondo piano la sua naturale fotogenia, spostando l’attenzione dello spettatore sulle vicissitudini del personaggio. Nonostante questo, mi sembra che il nostro cinema ne sottovaluti le potenzialità. Sei d’accordo, e ancora puoi dirmi che tipo di interprete è?
Avendoci lavorato più di una volta, dico che è un’attrice dal grande potenziale, di grande perspicacia e capacità intuitiva. Tutto ciò la porta ad avere un’intelligenza cinematografica molto sviluppata e i risultati ottenuti anche in televisione sono dovuti a questo. Con quei tempi, modalità e materiali artistici, lei riesce a tirare fuori delle cose che hanno un discreto potere magnetico. Concordo con te nel dire che si tratta di un’interprete largamente sottovalutata e sottostimata. Lei si mette a nudo, quindi in qualche modo la vedi oltre il suo aspetto fisico.