Blackhat, un film del 2015 scritto, diretto e prodotto da Michael Mann, con protagonista Chris Hemsworth. Si tratta del ritorno dietro la macchina da presa per il regista Mann dopo sei anni da Nemico pubblico – Public Enemies, girato nel 2009. Il budget del film è stato di 70 milioni di dollari. Inizialmente il progetto era intitolato Cyber. L’idea di realizzare il film è venuta a Mann a seguito della diffusione di Stuxnet, malware progettato dagli americani e dagli israeliani per sabotare le centrifughe dell’impianto nucleare iraniano di Natanz. Con la direzione della fotografia di Stuart Dryburgh, le scenografie di Guy Hendrix Dyas, i costumi di Colleen Atwood e le musiche di Harry Gregson-Williams e Atticus Ross, Blackhat è stato girato nell’arco di 66 giorni in 74 diverse location sparse per il mondo e affronta uno dei pericoli del Terzo Millennio, il cyberterrorismo, e per farlo prende spunto da diversi episodi realmente verificatisi, che hanno alterato i confini tra legalità e illegalità. Sottolineando come le moderne interconnessioni globali possano essere labili e presentare punti di vulnerabilità, Blackhat indaga anche su quelle che possono essere le motivazioni che spingono un hacker, spesso seduto sul divano della propria abitazione, a mettere in moto le proprie azioni provocando anche danni milionari. A garantire l’autenticità dei dialoghi del film è intervenuto Michael Panico, ex agente speciale dell’Fbi che per anni si è occupato di cyberterrorismo.
Sinossi
Un importante codice informatico è stato violato, innescando una catena di eventi che colpisce i mercati azionari di tutto il mondo. A colui che aveva scritto il codice, detenuto in carcere per crimini informatici, viene concessa la libertà a condizione che faccia parte di una task force dell’Fbi e del governo cinese per risalire all’autore della violazione e alla rete di cyber-terrorismo d’alto livello che vi sta dietro. Inizia così una caccia al topo che da Chicago arriva a Giacarta, passando per Los Angeles, Kuala Lampur e Hong Kong.
Michael Mann perpetua il suo cinema spostando la molla dell’azione nel mondo informatico e ipertecnologico. Gli hacker e i servizi segreti internazionali in lotta per interessi di portata mondiale: spostamenti di capitale, centrali nucleari, estrazioni di materie prime. Il consueto flusso repentino degli eventi si snoda nelle metropoli moderne, frenetico, adrenalinico, senza soluzione di continuità. I personaggi paiono gli stessi di sempre, a prescindere dal volto e dai nomi, uomini e donne presi nel vortice di vicende mozzafiato. Siamo di fronte all’eccellenza del mestiere di regista in termini tecnici, come dimostrano varie sequenze del film, in primis quelle dell’inseguimento-sparatoria nel tunnel sotterraneo e quella finale nella sfilata-rito orientale o la labirintica corsa a schivare microchip nei titoli di testa. C’è la consueta piccola concessione alla passione, istintiva, pulsante, viva, fatta di brevi pause amorose, Il protagonista ex galeotto, i comprimari di carattere, il moderno antieroe malvagio, la bellezza esotica di turno, tutte pedine di un gioco denso di ritmo e velocità. Per due ore buone di solido intrattenimento e ipercinesi cinematografica. L’undicesimo film di Michael Mann è un film importante, forse il primo vero film dell’epoca digitale. E non soltanto per quel che racconta. Mann mette, sì, in scena uno schema narrativo di guardie e ladri, il cui eroe è imparentato con lo Jena Plissken di 1997 – Fuga da New York; realizza anche quattro sequenze d’azione ad alto tasso adrenalinico: però non bisogna cercare qui le cose che gli interessano davvero. Invece il regista, all’anagrafe settantaduenne, appare impegnato a realizzare un’opera digitale, ipertestuale, che rompe con gli schemi noti più di tutti i film diretti dai suoi colleghi giovani. Invece di rispettare i canoni dell’actioner hollywoodiano, da sempre concentrato sulla successione degli avvenimenti, le loro connessioni, lo sviluppo dell’azione, Mann alterna il montaggio rapido con lunghe pause «riflessive», elimina come inessenziali i raccordi narrativi, procede per tagli, strappi e cesure mirando all’essenziale in un modo cui il cinema hollywodiano non ci aveva abituati. Non siamo tanto davanti a un film d’azione, quanto piuttosto a un film specchio della difficile transizione che tutti stiamo vivendo: il passaggio all’epoca digitale e alla cultura della smaterializzazione, con relativo spaesamento. Quel che Mann vuole indicarci attraverso il suo sguardo analitico è la realtà – metà materiale metà virtuale – in cui ci stiamo abituando a vivere. E che qui ci si mostra nel suo aspetto meno rassicurante.