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Conversation

George Hilton – il mondo è degli audaci: intervista al regista del film, Daniel Camargo

Presentato fuori concorso ad Agenda Brasil (Milano, luglio 2019), "George Hilton: il mondo degli audaci" di Daniel Camargo racconta vita e carriera dell'attore uruguaiano, rievocando l'universo del cinema di genere italiano in voga tra i Sessanta e gli Ottanta. Con una sorpresa finale che ha a che fare con il nuovo film di Quentin Tarantino. Per l'edizione romana di Agenda Brasil, ecco l'intervista di Taxi Drivers al regista brasiliano

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Parlare di George Hilton equivale a prendere in considerazione uno degli attori di spicco della produzione commerciale italiana degli anni Settanta. Il tuo film gli restituisce l’importanza che merita a fronte di una considerazione non altrettanto generosa da parte degli addetti ai lavori.

Sì, il primo obiettivo era questo. Poi avevo il desiderio di fare una panoramica sull’universo del b-movie italiano a cui Hilton apparteneva. Per me è un po’ strano definirlo così perché si trattava di pellicole che facevano così tanti soldi ed erano sempre una garanzia di successo. Ovviamente, questa è una definizione frutto del pregiudizio della critica da sempre attratta da un tipo di cinema più politico e impegnato.

Quando afferma che recitare è una questione di feeling, Hilton applica al suo mestiere lo stesso principio utilizzato per le scelte più importanti del suo privato, dettate dall’istinto e non da un piano prestabilito. Mi riferisco per esempio ai fatti che lo hanno portato dall’Uruguay all’Italia, passando per l’Argentina.

Guarda, dipende da questa cosa che hai detto ma anche da altri fattori, non ultima la fortuna. È un gioco, un po’ come il poker quando ti capitano le carte giuste. Poi dipende anche dal film, dall’istinto, dal seguire il tuo cuore, avendo cura di avere sempre un piede per terra, perché a volte il troppo sentimento fa perdere di vista la realtà. Senza merito, fortuna e talento non bastano. La vita è fatta di scelte e anche di conseguenze rispetto a quello che facciamo e in cui crediamo. George Hilton ha più cuore di altri per parlare della sua vita e di tutto quello che è successo.

George Hilton – il mondo è degli audaci ripercorre gli aspetti pubblici e privati del protagonista. La sua vita personale in effetti ha molto a che fare con il cinema perché davvero si è trattato di una grande avventura.

Sì certo, per questa ragione diciamo che il film si intitola “Il mondo è degli audaci”. Non è una trovata pubblicitaria ma il principio con cui Hilton si è posto di fronte alla realtà: lasciare una vita agiata come quella che aveva in Uruguay non è stata cosa da poco, pur considerando i problemi con i genitori e in special modo con il padre. Se ci pensi, ogni vita è piena di drammi e di grandi conflitti: molto dipende da come ci si rapporta ad essi per sopravvivere e ottenere ciò che si vuole.

Per ambiente ed elezione culturale Hilton è il risultato di una formazione anomala e diversa dalla maggior parte dei suoi colleghi. Di famiglia benestante, egli cresce nutrendosi di teatro e di cinema classico americano e questo emerge nel suo modo di stare davanti alla macchina da presa.

Credo che non dipenda solo dall’aspetto esteriore. L’attore deve avere un rapporto particolare con la cinepresa. Tu puoi essere bravissimo sul palcoscenico e in teatro ma se non hai feeling con l’occhio del regista è finita. È per questa ragione che certi attori possono fare solo le parti da caratterista e non quelle principali. George apparteneva a quest’ultima categoria perché funzionava alla perfezione in questo tipo di ruolo. La  ragione per cui veniva chiamato così tanto dai registi risiede in questo tipo di chimica: lui l’aveva, altri no. Quella con la Fenech per esempio è stata un fattore decisivo perché spesso vediamo due attori belli, ma non sempre questo basta per farli funzionare bene insieme. Lui ne aveva a dismisura ma per accorgersene ci voleva l’istinto del produttore e del regista. Un cinema come quello era ideale perché tutti sapevano cosa dovevano fare. George era bravo ma se a dirigerlo non ci fosse stato un buon regista la sua presenza sarebbe andata sprecata.

Parlando di sé Hilton afferma di aver guardato alla grande tradizione hollywoodiana, avendo come riferimento Montgomery Clift, di cui sottolinea la capacità di parlare attraverso lo sguardo. A questo Hilton aggiunge una versatilità fornitagli dalla sottile vena umoristica che accompagna la costruzione dei suoi personaggi.

Possiamo dire che ognuno di questi grandi attori, e parlo di Giuliano Gemma, Gianni Garko e Anthony Steffen, che tra l’altro era anche mezzo brasiliano, rappresentavano tipologie umane differenti. Se serviva una resa un po’ più leggera Hilton funzionava meglio, mentre se si cercava un eroe bello e sensibile Gemma risultava la scelta migliore; quando a prevalere era la componente fisica, Franco Nero primeggiava, mentre Steffen era preferibile per storie drammatica e tragiche. Certo, quando un attore è bravo riesce a sfuggire gli stereotipi, ed è quello che facevano questi attori. Ognuno di loro, oltre a interpretare un ruolo, aveva la capacità di portare sullo schermo qualcosa che gli apparteneva ed era questo a renderli dei leading actor. In un film con Clarke Gable non vedi solo il suo personaggio ma anche lui. È una cosa tipica del cinema, quella in cui mettendo un attore di fronte alla macchina da presa non riesci più a distogliere la vista da lui. La sceneggiatura aiuta, ma questa è una cosa che l’attore deve avere. Non so chi gli dia questo dono, se Dio o la fortuna. Chiamala come vuoi, ma l’attore deve  bucare lo schermo.

Nel film Garko racconta un gustoso aneddoto a proposito dell’incontro con Sergio Leone, mentre girava senza troppe aspettative quello che sarebbe diventato uno dei più grandi film di sempre, e cioè Per un pugno di dollari. Leone tra le altre cose inaugura l’amore del western per le facce dei personaggi, per la predilezione dei tanti piani sequenza in cui a parlare è solo lo sguardo o l’espressione visuale dei personaggi. Un triangolo, quello tra attore, cinepresa e pubblico destinato a un sodalizio visibile anche nel caso dei western girati da Hilton. 

Hai detto tante cose interessanti, per cui per rispondere mi piace prendere spunto da alcune di queste. La prima è il fatto che l’Italia è un paese fantastico: non solo perché mia moglie è una vostra concittadina, ma anche per il talento che vi ha permesso di prendere modelli cinematografici stranieri per rifarli a modo vostro. Prima di Sergio Leone il western era una cosa, dopo do lui è diventata un’altra. Lui ha cambiato la maniera di farlo ed è come se la creatura avesse cambiato il creatore al punto che il cinema americano ha poi fatto suoi tutti gli elementi che Leone ha messo nei suoi film, compreso Sam Pekimpah, il quale con The Wild Bunch ha fatto uno spaghetti western, E questo succede anche con gli altri generi. A Cinecittà tanti film americani hanno lasciato set come Cleopatra, Lawrence D’Arabia, Quo Vadis e da quelli sono nati  Maciste e la moda dei Peplum. In seguito ci sono stati gli spy movies e, sulla scia del successo del primo James Bond, in Italia se ne sono fatti tanti simili a quello. La stessa cosa è successa con il Western e anche con il giallo. È vero che c’era stato già  Mario Bava, ma quando Argento fa L’uccello dalle piume di Cristallo inaugura una nuova moda, poi seguita dal cinema americano. Da film come Dirty Harry e The French Connection sono derivati tutti i poliziotteschi, i film a mano armata con Maurizio Merli. In Italia quei modelli venivano rifatti in una maniera propria e più esagerata. Nei western americani il cattivo dopo un solo colpo cadeva morto, mentre Sergio Leone girava e girava con movimenti di macchina più lenti. Era tutto più operistico e sensazionale. Anche l’uso della musica da parte di Morricone andava in quella direzione. Davvero voi italiani oltre al talento per la moda e per il design, avete anche quella del cinema.

Nel documentario si sottolinea lo straordinario successo de Lo strano vizio della signora Wardh, il film che lancia Hilton come protagonista del genere giallo, dimostrandone ancora una volta la poliedricità. 

Sì, lui è davvero un talento. Non voglio sembrare nostalgico, ma rispetto al passato il cinema di oggi è cambiato. Tutti i film sembrano uguali e sono in pochi ad avere un segno distintivo. Il cinema mondiale è diventato più piatto. Certe cose non si possono fare perché tutto deve rispondere a una correttezza politica che a Sergio Martino non interessava. Oggigiorno, la volontà di fare soldi mette paura ai produttori, diventati meno coraggiosi per questo motivo.

Nella seconda parte del documentario fai una panoramica ad ampio raggio sui protagonisti e sulle dinamiche del cinema di genere di quel periodo, arrivando a toccare anche gli aspetti produttivi e organizzativi. Dovendo trovare un filo comune alla galleria di ospiti che intervengono alla discussione, quale pensi possa essere? Forse la capacità di adattare il cinema americano a forma e contenuti doverosamente autoctoni?

Anche in Brasile come in Italia non abbiamo grandi budget, per cui l’unica via di uscita è fare i film alla nostra maniera e con la nostra personalità. Senza perdere di vista il fatto che si sta facendo un mestiere e, dunque, che anche il ritorno economico va preso in considerazione. Da qui la necessità di avere da una parte Pasolini, con i suoi capolavori, e dall’altra Michele Massimo Tarantini con  il suo La liceale. L’ideale sarebbe poter vedere da una parte i vari Fellini, Visconti e dall’altra Leone, Martino, Enzo G. Castellari e tutti gli altri, senza nessuna preclusione.

Mi accennavi alle difficoltà che hai incontrato per riuscire a girare il film.

Produrlo è stato molto difficile, perché quando dicevo che volevo fare un film su Hilton e sul cinema a cui apparteneva non sembrava importare a nessuno. Ho avuto pochissimo supporto, tanto meno dalle grandi aziende. Sono stato una specie di Brancaleone. Senza mia moglie (Rosa Topputo, D’Arc Studio, ndr) il film non si sarebbe mai fatto, e l’impegno di George è stato decisivo per portarlo a termine. Se non fosse stato per me e per chi mi ha sostenuto queste storie sarebbero andate perdute, anche perché alcuni dei protagonisti nel frattempo sono morti. È come se verso questo tipo di cinema ci fosse ancora un pregiudizio, nonostante sia sotto gli occhi di tutti che si è trattato di un fenomeno storicamente importante. È un fatto che non si può dimenticare perché esisteva assieme alle sue prerogative. Poteva capitare che lo stesso direttore di macchina che lavorava per Visconti potesse occuparsi del film di Martino. Faceva tutto parte della stessa industria, era ugualmente occupata da autori e registi commerciali. Nonostante questo, ho dovuto rinunciare a certi spezzoni di film perché mi hanno chiesto tanto soldi come ne potrebbe chiedere Universal e Paramount per i loro titoli. In quanto straniero mi ha fatto molto pensare che nel raccontare la vostra storia nessuno lo volesse fare.

Vedendolo raccontare i momenti più importanti della sua esistenza, l’impressione che dà Hilton è quella di una persona signorile e riservata, per nulla attaccata all’immagine di divo cinematografico che lui per un certo tempo è stato. Com’è stato lavorare con lui?

È stato come la prima volta che vedi la tua fidanzata. All’inizio è riservata, ma dopo che l’hai conosciuta e ti guadagni la sua fiducia non puoi chiedere di meglio. Così è successo con lui al punto che è arrivato a parlarmi anche del risvolto più doloroso della sua esistenza, coinciso con la morte della figlia. Resosi conto che avrei fatto le cose nella maniera migliore, rispettando la verità della sua vita pubblica e privata, anche quando si trattava di parlare di momenti meno fortunati, l’intesa è diventata totale. Lo stesso hanno fatto la prima moglie e l’altra figlia, come pure, in Uruguay, la sua famiglia d’origine. Ho girato il film in Brasile, Argentina, Uruguay e in Italia in maniera indipendente e con un budget limitatissimo. Per riuscire a farlo ho imparato a essere audace come George, e farlo nel modo migliore è stata la maniera di ringraziarlo per la generosità con cui si è concesso.

Guardando alla sua carriera che tipo di considerazioni fa? Si rende conto di quanto ha fatto e del rispetto che si è conquistato presso i tanti fan sparsi in tutto il mondo?

Grazie ai social media ha ricevuto la sorpresa di sapere dei milioni di fan sparsi in tutto il mondo e che, per esempio, i ragazzini giapponesi sono impazziscono per i suoi western. Cosa che succede anche in Italia con ragazzi che all’uscita dei suoi film non erano ancora nati. Detto questo, lui non è una prima donna e nemmeno un divo; è molto tranquillo rispetto alla sua carriera: sa che anche ora c’è rispetto per il lavoro che fatto.

Che tipo di percorso avrà il tuo documentario?

Con la presentazione nell’ambito di Agenda Brasil, il festival sul cinema brasiliano, ho avuto modo di sentire altri agenti  interessati a farlo vedere nei festival. Come detto: realizzarlo è stata una lotta, riuscire a farlo vedere lo sarà altrettanto. In tutta sincerità a me interessava che le persone potessero conoscere com’era questo tipo di cinema, in quella precisa epoca. Nonostante i pochi mezzi, volevo che il mio documentario fosse una testimonianza di ciò che è stato. In giro ci sono anche altri che hanno raccontato di questa storia, per esempio attraverso i libri, dunque speriamo che il film venga mostrato e circoli il più possibile.

Mi dicevi del legame tra il tuo documentario e l’ultimo film di Quentin Tarantino. Me ne vuoi parlare?

Quentin Tarantino fa un omaggio esplicito a George Hilton in Once Upon a Time in Hollywood. Senza passare per presuntuoso, penso che il mio film sia complementare al suo e il suo al mio, perché  il personaggio di Di Caprio è un attore che fa televisione negli Stati Uniti per poi andare a fare film nel vostro paese. L’universo che Rick Dalton trova in Italia è esattamente quello che il mio film mostra. Nel film di Tarantino il riferimento è esplicito. Durante la storia vediamo il manifesto del film italiano di Rick Dalton, che è identico a quello fatto a suo tempo da Hilton per un suo film. Penso che i vostri lettori appena vedranno l’opera di Tarantino se ne renderanno conto subito.

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