9 Agosto 1969. Per alcuni, la data che sancì la fine definitiva degli anni Sessanta. Per tutti, il giorno di una delle più efferate stragi che la storia recente americana ricordi. È in occasione di questo terribile anniversario che Charles Manson e la sua Family tornano a occupare prepotentemente un posto nel nostro immaginario, facendosi protagonisti, ancora una volta, del lato più oscuro degli anni della controcultura. Un ritorno – reso ancora più eclatante dalla imminente uscita di Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino – che trova però in Charlie Says, ultima fatica della regista Mary Harron (Ho sparato a Andy Warhol, American Psycho), un’incarnazione inedita e inaspettata, lontana tanto dalla distorta esaltazione di un personaggio tragicamente iconico, quanto dalla pedissequa riproposizione di una vicenda risaputa, dettagli morbosi compresi. Pare esserci una propensione a guardare oltre, infatti, nel lavoro della Harron, un’indagine sui generis che adotta, scansando qualsiasi facile spettacolarizzazione, una nuova prospettiva, andando al di là della più scontata messa in scena dei fatti e prendendo in prestito lo sguardo di tre protagoniste di quegli orribili delitti, carnefici a loro volta vittime di una mascolinità tossica, manipolatrice e misogina.
Susan Atkins (Marianne Rendón), Patricia Krenwinkel (Sosie Bacon) e Leslie Van Houten (Hannah Murray), con le loro confessioni all’assistente sociale (Merritt Wever) che vorrebbe deprogrammarle, e i loro flashback all’interno del tristemente noto Spahn Ranch, diventano così protagoniste di una vicenda problematica e dai risvolti non banali, dove il Mostro (un Manson reso sapientemente privo di fascino dall’interpretazione del Matt Smith di Doctor Who) viene scorto quasi di sfuggita, relegato a comparsa meschina e frustrata di un dramma più grande di lui. È così che, in Charlie Says, la Storia viene solamente costeggiata, raccontata attraverso frammenti significativi, istantanee su un orrore ormai scandagliato in ogni dettaglio e relegato a flash rivelatori, come la scritta “Helter Skelter” tracciata col sangue sullo sportello di un frigorifero o il primo piano di un’ignara Sharon Tate, poche ore prima del massacro, il tutto sulle note e i versi mediocri e pretenziosi di un cantante mancato, pronto a scatenare l’Apocalisse per un folle capriccio di gloria.
Mentre i ricordi di Lulu/Leslie accompagnano lo spettatore all’interno della Famiglia e delle sue regole, tra culto e sottomissione, desiderio di comunione (quello delle protagoniste tra di loro) e sudditanza psicologica a un uomo senza scrupoli ne rispetto (in particolare proprio verso quelle donne che diceva di amare), va così in scena la destrutturazione di una realtà sanguinaria, lo sguardo parziale e sentito (la stessa Harron aveva vissuto all’interno di un gruppo di cultisti da ragazzina) su un mondo solo apparentemente lontano da noi. Charlie Says diventa così, sorprendentemente, non più la semplice cronaca di eventi passati e lontanissimi ma qualcosa capace ancora di parlare al nostro presente, un film a suo modo femminista su dinamiche estremamente attuali, forte dell’apporto delle sue interpreti capaci di rendere il dramma di quelle donne succubi e manipolabili, colpevoli eppure vittime di una violenza le cui logiche ancora ci appartengono. Un discorso alternativo da contrapporre alla banale fascinazione per il male o all’ennesimo, morboso spettacolo di morte cui tanti, troppi film di questo genere ci hanno ormai abituati.