XXY, un film del 2007 scritto e diretto da Lucía Puenzo, all’esordio nella regia, ispirato al racconto Cinismo di Sergio Bizzio. Presentato al Festival di Taormina 2007 e vincitore della Settimana della Critica al Festival di Cannes, è il primo film che parla del vissuto di un adolescente intersessuale, descrivendo quel momento delicato e difficile che sono le prime esperienze sentimentali e sessuali, tra la confusione che tutto ciò può creare e la pressione a dover operare una scelta sul proprio corpo “diverso”. Con Inés Efron, Valeria Bertuccelli, Ricardo Darín, Martín Piroyansky.
Sinossi
Alex è una ragazza di quindici anni con un segreto. Poco tempo dopo la sua nascita, per proteggerla, i genitori da Buenos Aires si sono trasferiti in un luogo isolato sulla costa uruguayana. Una coppia di amici sta per venirli a trovare insieme al figlio Álvaro, sedicenne. L’uomo è un celebre chirurgo plastico mosso da curiosità professionale nei confronti di Alex. L’inevitabile attrazione che esplode tra i due adolescenti costringe tutti a fare i conti con le proprie paure. Intanto intorno a Alex si diffondono brutte dicerie.
Con questa sua opera prima Lucìa Puenzo ha conquistato l’ambito Gran Premio della 46me Semaine de la Critique a Cannes 2007, raccontando una storia di ambiguità genitale, fenomeno abbastanza frequente in Argentina (addirittura 1 neonato su 500, secondo alcune stime, nasce con entrambi i sessi). Soprattutto è una storia sulla libertà di scelta e sulle paure che può creare la diversità. Alex sta attraversando una fase critica, quella del risveglio ormonale, ed è sotto l’effetto di farmaci che le impediscono la “virilità” e che quindi la conservano nella sua parte femminile. Ma le sue pulsioni sessuali creano turbamenti, sia a lei, sia a chi le sta intorno. L’esplosione dell’adolescenza amplifica oltremodo la sua doppia condizione sessuale creandole confusione e smarrimento, tanto che diventa diffidente anche nei confronti degli amici più vicini a lei. L’intento dei genitori (soprattutto della madre) è quello di farla operare e di renderla “normale”. Non è della stessa idea il padre che difende a spada tratta la figlia dagli attacchi di coloro che la credono solo una “specie in estinzione”. Alvaro si trova suo malgrado coinvolto dall’ambiguità di Alex e ne rimane affascinato. Lui stesso ha alcuni conflitti irrisolti con il padre, il quale vede nella ragazza solo una potenziale fonte di maggior popolarità per la sua professione. La giovane ermafrodita (splendidamente interpretata dall’esordiente Inés Efron) affronta con disarmante naturalezza la sua natura bizzarra cercando di tranquillizzare gli altri sul fatto che diverso non sempre vuol dire pericoloso. In particolar modo, XXY vuole puntare il dito contro chi non vuol conoscere e rinnega la diversità altrui arrivando addirittura ad estirparla con la forza. Azzeccati anche i personaggi comprimari come il padre Kraken (un intenso Ricardo Darìn) o il giovane Alvaro (Martìn Piroyanski), il quale dà vita ad un personaggio che nella sua “normalità” sa essere fragile e confuso quanto Alex.
I dialoghi ridotti all’osso focalizzano maggiormente l’attenzione sul “non detto” e quindi fanno emergere le sfumature caratteriali dei personaggi in un’atmosfera mistica e fuori dal tempo (complice anche lo splendido paesaggio magistralmente ripreso). La Puenzo è figlia d’arte (il padre Luis è il famoso regista di pellicole come Old Gringo e La puta y la Ballena e in XXY ricopre il ruolo di produttore) e l’influenza si sente eccome. La regia è molto pacata, ai limiti del documentario, molto attenta negli esterni ed estremamente sensibile quando si tratta di girare scene particolarmente insidiose e delicate come quelle dei primi approcci sessuali tra Alex e Alvaro. La regista gioca molto con le immagini e come metafora della castrazione inserisce sequenze di sicura efficacia, come ad esempio la madre di Alex con un coltello che taglia una carota con irruenza finendo poi per ferirsi o una tartaruga di mare con le pinne amputate. Alex alla fine, decide di non decidere, perché la natura le ha donato quel corpo che può sembrare uno scherzo, ma ciò non le ha impedito di innamorarsi o di provare dei sentimenti e sensazioni forti e questo equivale a sentirsi liberi. Diventa così l’icona di chi, consapevole dei propri limiti, decide di non nascondersi, affrontando a testa alta i pregiudizi delle persone che si fanno scudo nascondendosi dietro a facili discriminazioni. Bella prova d’esordio per Lucìa Puenzo che rischiava di bruciarsi dato l’argomento scelto, quello dell’ambiguità sessuale, che andava trattato con le dovute cautele senza scadere nello scandalistico o nel morboso. Il livello si mantiene sempre intenso, molto vicino alla storia narrata e sempre con l’occhio puntato sul fulcro della vicenda ovvero (per dirla con le parole della regista) sul fatto che “nel processo di castrazione, la paura per l’ambiguità genitale diventa la metafora per tutte le amputazioni prodotte dalla paura di essere diversi“.