Il Clan, un film argentino del 2015 scritto e diretto da Pablo Trapero, basato su un fatto di cronaca realmente avvenuto in Argentina, quello dei Puccio, responsabili di almeno quattro omicidi tra il 1982 e il 1985. Con Guillermo Francella, Peter Lanzani, Inés Popovich, Gastón Cocchiarale. Il film si è aggiudicato il Leone d’argento – Premio speciale per la regia alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2015 e un Premio Goya per il miglior film straniero in lingua spagnola nel 2016.
Sinossi
Siamo a Buenos Aires nei primi anni 80. Qui Arquìmedes Puccio, all’apparenza irreprensibile padre di famiglia, è a capo di un’organizzazione dedita al rapimento degli esponenti più ricchi della città e alla loro eliminazione subito dopo aver incassato il riscatto. Tutto ciò avviene in una stanza della casa dell’uomo, con il consenso tacito di tutti i membri della sua numerosa famiglia. Il figlio Alejandro, in particolare, è complice di quasi tutti i sequestri, pur vivendo un montante senso di colpa per la crudeltà delle proprie azioni. L’attività del clan dei Puccio si è svolta per anni sotto l’egida di un regime votato già di suo alla pratica del far sparire persone innocenti, ma ora che politicamente le cose sono cambiate Arquìmedes si trova privo delle difese garantitegli dalla dittatura ma, al tempo stesso, incapace di abbandonare quella vita.
La recensione di Taxi Drivers (Fabio Giusti)
Un anno esatto. Tanto c’è voluto per vedere anche da noi uno dei film-rivelazione della 71 Mostra del Cinema di Venezia (oltre che Leone d’Argento alla miglior regia) e, malgrado Il Clan arrivi in sala in un periodo dell’anno in cui, se si va al cinema, lo si fa giusto per vedere il blockbuster di turno, sarebbe comunque il caso di non perderlo. L’argentino Pablo Trapero racconta una delle pagine più buie della storia del proprio Paese e lo fa utilizzando, come filtro narrativo, i codici del thriller di chiara estrazione statunitense.
La storia narrata è agghiacciante ma Trapero, più che dalla cronaca in senso stretto, sembra affascinato dalle insidiose dinamiche interne che regolano e scandiscono la vita di questo singolare e inquietante clan. Per descriverle l’autore assume il punto di vista del figlio Alejandro, rugbista in erba combattuto tra il senso di appartenenza e la lealtà verso un padre padrone e il rumore via via sempre più forte della propria coscienza. In questo modo il patriarca Arquìmedes Puccio diventa il simbolo di una Nazione che per sette anni (dal 1976 al 1983) si è macchiata del sangue dei propri cittadini chiedendo loro in cambio null’altro che cieca obbedienza, senza però mai perdere di vista la sua natura cinematografica di villain di rara infamia, reso ancor più crudele dalla facciata di insospettabile uomo medio e dal fatto che a interpretarlo (in maniera magistrale) sia un attore generalmente impegnato in ruoli più leggeri come Guillermo Francella.
Il Clan è dunque un mirabile esempio di come oggi il cinema di denuncia possa e, per molti versi, debba sposare l’epica criminale e diventare qualcosa di ben più strutturato, evitando anche certe derive documentaristiche che spesso rischiano di allontanare il pubblico. Trapero invece gira con un occhio a Martin Scorsese (soprattutto per l’uso di canzoni pop giustapposte a immagini particolarmente efferate) e un altro al magnifico Il segreto dei suoi occhi del connazionale Juan José Campanella, riempiendo il film di complicatissimi movimenti di macchina e di una disturbante scena finale di rara potenza visiva.
A voler proprio spaccare il capello, l’unica pecca del film è nell’eccessiva lentezza che contraddistingue certi passaggi narrativi, soprattutto nella parte centrale, e che diluisce il ritmo con cui, fino ad allora, si alternano con estrema perizia registri linguistici diversi. Ma del resto Il Clan non è – e soprattutto non ambisce ad essere – né il Romanzo criminale argentino né tanto meno una declinazione sudamericana de Il Padrino. È principalmente una riflessione assai lucida (e tecnicamente impeccabile) sull’uso distorto del potere e su come certi regimi tendano a deresponsabilizzare – e in alcuni casi addirittura a legittimare – il ricorso alla violenza.