Proponiamo qui due recensioni differenti e a confronto sulla premiere della nuova e discussa stagione di Black Mirror.
Striking Vipers: il primo, stimolante episodio della quinta stagione di Black Mirror.
Archiviata l’esperienza interattiva di Bandersnatch, Black Mirror riparte con una nuova stagione, alla ricerca dello spirito inquietante e provocatorio delle origini
Di Mattia Caruso
Diciamolo: dopo un paio di stagioni pregevoli ma decisamente innocue, tra trovate (a volte) ripetitive e risoluzioni agrodolci, si stava cominciando a sentire la mancanza dello spirito originario di Black Mirror, di quella sua capacità di mettere in crisi certezze e porre interrogativi tutt’altro che lontani dalla nostra esperienza quotidiana.
Non che Striking Vipers, primo episodio di una quinta stagione tornata a essere – anche a seguito dello sforzo produttivo del discusso Bandersnatch – miniserie di soli tre episodi, sia la svolta che qualcuno si sarebbe (ancora) potuto aspettare, immerso com’è in quella tendenza al progressivo addolcimento di toni e tematiche che il nuovo corso Netflix pare aver sancito, eppure gli interrogativi e le istanze che smuove e mette in scena sono tutt’altro che innocue, quanto basta, comunque, per restituirci almeno una eco dello spirito delle origini.
Parte da una premessa quasi banale, d’altronde, l’episodio scritto da Charlie Brooker e diretto da Owen Harris – un videogioco (picchiaduro, tra Tekken e Street Fighter) che, grazie a un sistema di realtà virtuale, permette di aderire completamente all’avatar selezionato – uno spunto dietro cui si nasconde un’idea piena di suggestioni, i cui confini si allargano, riscrivendo dinamiche, relazioni e affetti, fino a intaccare l’istituzione famigliare e, soprattutto, il rimosso e il non detto che si agita dietro la più classica delle amicizie virili.
È proprio il rapporto tra Danny (Anthony “Falcon” Mackie) e Karl (Yahya Abdul-Mateen, già visto in Aquaman) a cadere sotto i colpi di Black Mirror, che scardina e mette in luce le regole non scritte del buddy movie facendo emergere ciò che più è nascosto, imprevedibile, irrisolto.
È qui che la tecnologia entra (nemmeno troppo originalmente, è vero) in gioco, un campo da esplorare dove il cameratismo, la competizione e la violenza si tramutano in altro, facendo emergere in un colpo solo tutti i pregiudizi che dominano il quieto vivere borghese
Sta tutta qui, in fondo, la forza di questo episodio, una forza legata alla sua intuizione più che a un’effettiva realizzazione, irrimediabilmente frenata da un registro troppo leggero e, soprattutto, da uno sviluppo frettoloso (quanto ancora si sarebbe potuto approfondire il discorso di identità e di genere, con tutti quegli inevitabili paletti che una sua definizione statica e non fluida comporta?) e da una risoluzione conciliante che più che sconvolgere lascia solo l’amaro in bocca e il sentore dell’occasione mancata.
E se i tempi di San Junipero (un’altra storia dove la realtà virtuale e i “doppi” che la abitavano rivestivano un ruolo fondamentale) sembrano ormai lontani, complice, forse, un reale che ormai ha superato ogni possibile distopia, ogni capacità di essere letto senza portarsi dietro l’impressione di già visto, è però proprio dalle premesse e dal gusto provocatorio del più curioso e originale episodio di questa nuova stagione che la serie dovrebbe ripartire.
Dov’è finito il genio di Charlie Brooker?
Inizio col botto rimandato per la quinta stagione di Black Mirror, almeno a giudicare dal primo episodio.
Di Nicola Girau
La fortunata serie tv britannica, concepita e scritta dal genialoide Charlie Brooker, ha sempre abituato i suoi fan a grandi aspettative per la nuova stagione, con la promessa implicita non solo di non disattenderle, ma di stupire andando oltre le aspettative stesse.
L’inaspettato, lo shock visivo ed emotivo, la capacità di sollevare l’asticella dell’immaginario pescando da inquietudini tecnologiche familiari e futuribili, sono sempre stati la cifra stilistica di Black Mirror e il cuore, seppur con alti e bassi, del rapporto tacito con lo spettatore, fosse anche alla prima esperienza col mondo dello specchio nero.
Lo stesso “Bandersnatch”, il fortunato film interattivo a finali multipli, andava in questa direzione uscendo a Dicembre 2018 (a un anno esatto dalla quarta stagione), mostrando qualcosa di mai visto prima e offrendo non solo la visione di un nuovo episodio, ma un’esperienza, di cui nel bene o nel male ha parlato mezzo mondo per giorni.
Legittimo quindi aspettarsi qualche fuoco d’artificio in apertura di stagione, ma il primo episodio “Striking Vipers”, pur rispondendo ai canoni ormai classici della serie, arriva decisamente sottotono, quasi incapace di reggere i picchi emotivi senza rifugiarsi in una tranquillizzante ironia, fino a scadere in un finale moscio, all’insegna della banalità che dovrebbe accontentare grandi e piccini.
Siamo ben lontani dal Black Mirror spietato che puntava all’inquietudine, a far sentire “perso” e impaurito chi guardava, a disseppellire e/o creare ferite, buttarci il sale sopra e chiudere tutto improvvisamente prima che fossi in grado di dare anche solo una leccata. BM “doveva” turbare, e possibilmente in profondità. Era questa la sensazione dominante, prima durante e dopo ogni episodio.
In “Striking Vipers” l’idea in puro stile BM c’è tutta: due amici, coinquilini in età studentesca insieme alla fidanzata di uno dei due, condividono una nicchia di complicità esclusiva fatta di gaming, attraverso “Striking Vipers” un videogioco di combattimento ispirato ai più famosi picchiaduro anni 90 come “Street fighter”, “Tekken.” e “Mortal Combat”. E qui si vedono le radici di Charles Brooker, che nasce recensore di videogiochi proprio in quegli anni (riferimento portato ai massimi livelli in Bandersnatch)
Fin da subito si percepisce lo schema per il quale è impossibile dire di no al gioco, con uno dei due (Karl) nel ruolo di tentatore e l’altro (Danny) che prova a resistere ma cede facilmente alla passione. I tre si ritroveranno al barbecue per il 38mo compleanno di Danny. La fidanzata Theo è diventata sua moglie e madre di suo figlio, conducono una vita fin troppo regolare e tranquilla fatta di “grazie perché fai tu i piatti” e “ti dispiace se stasera non lo facciamo”. Imborghesiti al limite della noia. Karl, dal canto suo, è un ragazzone di quasi 40 anni tornato da poco nella “magnifica” giostra dei single fatta di Tinder e ventottenni attaccate allo smartphone anche fra le lenzuola, che con lui non riescono a condividere nemmeno il nome di un campione NBA causa evidenti limiti anagrafici. Due versioni opposte di vita felice, che appare tale solo quando la desideri perché non ce l’hai.
La chiave di volta della trama è il regalo di compleanno per Danny da parte di Karl: il loro vecchio videogioco in versione 2.0, con visore multimediale e un dispositivo da attaccare alla tempia per entrare anima e corpo nel gioco, provando ogni sensazione fisica del personaggio scelto. “Lance” per Danny (molto simile al Ryu di Street Fighter) e la biondina “Roxanne” per Karl. I corpi reali dei due amici, ognuno sul proprio divano davanti allo schermo, diventano involucri che reagiscono con qualche convulsione alle botte prese dentro il gioco (a la Neo in “Matrix”), il viso ha la tipica espressione catatonica con gli occhi spenti in una cataratta luminosa a testimoniare la perdita di coscienza nel mondo reale. Un’immagine vista talmente tante volte da poter essere considerata un topos della serie.
Inizia il gioco (round one, fight!) e dopo le prime esitazioni e qualche botta da orbi, i due amici si ritroveranno l’una sopra l’altro a baciarsi, in una posizione che lungi dalla lotta grida erotismo. Molto felice in questo senso, la scelta registica di passare in poche decine di secondi dal tipico “totale” bidimensionale coi due combattenti ai lati, alla soggettiva che tra un colpo e l’altro lascia spazio a inquadrature sempre più di “contatto” per finire nel quadretto amoroso lei sopra/lui sotto. Danny e Karl escono dal gioco confusi e straniti, ma ormai il seme della passione è stato piantato e non può che germogliare. La volta dopo i due non durano neanche dieci secondi, nemmeno uno schiaffetto e il bacio che li ha sconvolti il giorno prima diventerà rapporto sessuale.
La parte più efficace dal punto di vista narrativo è il duplice rapporto di dipendenza che incatena Danny e Karl al gioco, che vede in parallelo la morbosità patologica del “gaming disorder” e la travolgente passione amorosa da romanzo rosa. Entrambi i piani di dipendenza allontaneranno i due amici dalle loro vite reali, insinuandosi sempre di più nei loro gesti quotidiani fino a diventare un’ossessione incontrollabile. La vita sessuale di entrambi, presto non è più appagante, Karl non è più il latin lover di un tempo e il matrimonio di Danny con Theo sta per andare a rotoli. La realtà non regge il confronto fisico col teatro virtuale. Segreto, proibito, illimitato e (forse) omosessuale. L’ambivalenza sulla sessualità è l’altro cardine narrativo, che si può riassumere in una domanda di cui è permeato tutto l’episodio: può un rapporto virtuale (comprensivo di ogni percezione e condivisione fisica) fra un uomo e una donna, le cui coscienze appartengono nella realtà a due maschi etero, essere considerato omosessuale? Oppure possono coesistere omo ed eterosessualità nello stesso individuo, a patto di avere un alter-ego e un rapporto virtuale consumato carnalmente con l’alter-ego di un’altra persona reale?
L’intreccio, di per sé piuttosto banale, si snoda attraverso questi interrogativi nel costante contrasto, anche registico, dei due mondi: se la realtà ordinaria viene descritta con la stessa fotografia dello spot di un’auto per famiglie, asettica, borghese, regolare, i mondi a scelta di Striking Vipers hanno ben altri colori e luce, con tutto l’intrigo di poter violare le regole di un videogioco concepito per combattere in uno spazio predeterminato, lasciando andare il puro istinto. Una cosa impossibile nella realtà, per vincoli familiari, amicali, fisici e di genere.
Dopo un tentativo di troncare miseramente fallito, arriva inevitabile la prova del fuoco nel finale: Danny e Karl si incontrano in un parcheggio sotto la pioggia e dovranno baciarsi per scoprire se sono innamorati anche nelle loro spoglie appartenenti al mondo reale. Si baciano, non sentono nulla, poi litigano e si picchiano dal vero, finiscono in galera con tutta la loro goffaggine. Di ritorno, Danny finalmente racconterà tutto alla moglie Theo. Basterebbe già questo per farsi cascare le braccia per una buona idea sviluppata come un fotoromanzo rosa di quart’ordine.
A rovinare definitivamente tutto ed entrare a pieno titolo nella categoria “disastro” ci pensa l’ultima sequenza: siamo di nuovo a casa di Danny ed è di nuovo il suo compleanno, per i suoi 40 anni la moglie Theo gli “regala” il dispositivo per giocare con Karl, in cambio della sua fede nuziale senza la quale potrà farsi abbordare da altri uomini. Tradimento per tradimento, uno scambio equo per una sola notte all’anno.
I due amici che non sarebbero mai riusciti a rinunciare a “Striking Vipers” sono contenti. La moglie Theo, ora che è consapevole può concedersi lo stesso brivido di passione con altri uomini che in fondo ha sempre desiderato, la famiglia è salva ed è contenta. Tutti contenti. Un “quasi happy end”, tiepido e tranquillizzante. In molti si sono chiesti dove sia finito il genio disturbante, feroce e inesorabile della scrittura di Charlie Brooker. E francamente, guardando “Striking Vipers” me lo sono chiesto anch’io.