Pablo Trapero ritorna dopo l’acclamatissimo Il Clan focalizzandosi ancora una volta sulle questioni di una famiglia, un tema che era preponderante, seppur diversamente, anche nel suo precedente film. Qui la famiglia è matriarcale, il nucleo del racconto è al femminile, lo sguardo del regista è sulle donne, le uniche che restano e guardano al mondo con la parte maschile che vi rimane spesso fuori o se vi prende parte lo fa solo di riporto e di riflesso.
Si tratta di una famiglia borghese che ha vissuto in modo agiato e apparentemente felice: due sorelle molto simili, quasi gemelle, a ridosso dei 40, Eugenia e Mia (Berenice Bejo e Martina Gusman) ritornano alla “Quietud”, maestosa proprietà di campagna dei genitori, alle porte di Buenos Aires, dove sono richiamate ad unirsi al capezzale del padre ricaduto in una repentina e questa volta apparentemente fatale malattia. Ritrovandosi nel ricordo dell’infanzia con una storia che parte sui toni della sorellanza e di rifugio, presto emergono le ombre di un passato e di un presente pieni di oscurità. L’inconsistenza dei genitori, l’amore malato, il rifiuto, il malsano che deriva dalle relazioni fra coniugi e fra padri e figli, gelosie e risentimenti. La famiglia: il nido che diventa covo di meschinità e malvagità. Un tema non nuovo al quale si aggiunge l’incubo che emerge dalla storia, del passato recente di un popolo flagellato che si lega all’universo di Mia e Eugenia, quello di una nazione ancora succube della dittatura militare, nell’epoca dei desaparecidos che rievoca spettri che partono dal macrocosmo della società e giungono al microcosmo di una famiglia.
Da questo asse molto interessante, dove forse vi si poteva attingere in modo più cospicuo, si materializza una delle crepe del film. Il segreto di una famiglia (La Quietud) è un’opera che potrebbe essere ispirata a Bunuel, ma che non sa raccontare le brutture della borghesia con lo stesso dissacrante disincanto. Bunuel, sia quando “premeva sull’acceleratore” del surreale o vi smussava gli angoli, riusciva a mantenere convincenti i toni, le emozioni, la poetica e la lirica dei suoi film. In questo film, negli approcci poetici di lanthimosiana recente memoria, che spazia su questo menage a trois tutto al femminile, dove c’è una tensione fra disinteresse e interesse, fra amore sano e amore morboso, con uno sguardo materno molto pericoloso e particolare, lo spettatore fatica ad andare in profondità sui personaggi, fatica a convincersi. Non si entra in empatia con la sfera emotiva del racconto, quasi vi fosse sempre una velata mancanza di credibilità, come se il tutto fosse un po’ forzato e caricaturale. Talvolta non si capisce se si vuole far ridere, se il registro sia del dramma o della commedia, tra l’assurdo e passaggi da telenovela.
Poco sfruttate anche le ambientazioni, dove si gioca in maniera interessante sul contrasto tra giorno e notte, tra luci ed ombre, ma al contempo lo scenario naturalistico viene poco valorizzato in funzione della diegesi. Il contesto della campagna poteva racchiudere di più, essere una chiave espressiva del racconto cinematografico, ma rimane solo in apparenza e di contorno, scarico di simboli e significati evocativi. E in un film di questo tipo con il crescendo della tensione e dell’incubo l’uso di certe iconografie – pensiamo ad Hitchcock – poteva essere preziosa, invece troviamo solo alcuni sporadici espedienti che non funzionano o fanno il verso a se stessi.
Venendo alla fase della denuncia, con il tema politico che emerge ma rimane accennato e poco chiaro in una risoluzione che avviene solo a chiusura, il film ci lascia con più di qualche interrogativo sui troppi temi accennati e chiusi con una svolta che ci è sembrata repentina e sbrigativa, come se si volesse dire molto ma alla fine si dice poco o niente.